Il Consiglio di Stato ticinese ha messo in consultazione tra gli amministratori locali la riduzione degli attuali 135 Comuni ticinesi a soli 23 entro il 2020. Una riforma giusta ed utile?

L’idea che il numero di comuni vada ridotto gira sin dagli anni ’70. Alex Pedrazzini le diede un’accelerata nel 1998, e dagli allora 245 siamo già oggi scesi a 135 Comuni. C’è addirittura chi, come la VPOD, sogna solo 15 Comuni per garantire dappertutto servizi pubblici efficienti. La tesi principale è che molti piccoli Comuni non abbiano la massa critica (ca. 1’200 abitanti) per avere finanze sostenibili e una sufficiente offerta di politici che eviti le abituali elezioni tacite.

L’atteggiamento del Cantone Ticino è purtroppo coerente con la sua tradizione dirigista e costruttivista che lo caratterizza sin dalla nascita nel 1803. A titolo di paragone, nei vicini Grigioni il rispetto dell’autonomia comunale è storicamente ben più radicato. Il Libero Stato delle Tre Leghe era nell’ancien régime una confederazione di tre confederazioni comunali, mentre il Ticino è sempre stato gestito dall’alto come serie di baliaggi prima e come Cantone disegnato sulla carta poi (tanto da prendere il nome dal fiume che lo attraversa). Anche a livello svizzero, non manca chi di tanto in tanto con argomenti di efficientismo sostiene l’idea di pochi macrocantoni.

Questi approcci illiberali, dirigenziali e statalisti (di destra e di sinistra) dimenticano volontariamente le alternative che offrono la sussidiarietà e l’autonomia locale. Prima di tutto, se il problema è la carenza di municipali, basterebbe liberalizzare l’entrata nel mercato politico permettendo l’eleggibilità (diritto di voto passivo) anche a non residenti, e perché no anche a stranieri. La proposta non va confusa con il diritto di voto attivo agli stranieri (possibilità di votare). Da sempre, le aziende reclutano parte dei quadri anche da fuori, e pure all’estero. Il municipale a tempo parziale in più Comuni contemporaneamente diventerebbe un nuovo mestiere.

Se il problema è l’insostenibilità finanziaria, basterebbe abolire la perequazione intercomunale per indurre spontaneamente un processo aggregativo laddove necessario. In economia, le aziende troppo piccole vengono assorbite. Ovviamente, la burocrazia bellinzonese non gradirebbe.

Il punto focale rimane tuttavia la dimensione ottimale di una giurisdizione. Come per un’azienda, questa varia in base alla struttura dei costi del bene o servizio prodotto. Più panettieri in un singolo villaggio, ma banche internazionali. Il Comune è una combinazione di servizi pubblici con differenti dimensioni ottimali. Il controllo abitanti a livello di quartiere, la rete idrica su scala di agglomerato. Il dirigismo stesso del Consiglio di Stato, che prevede Comuni da 1’000 a più di 92’000 abitanti per lo stesso portafoglio di competenze comunali, è in logica contraddizione con se stesso. La soluzione? In Svizzera sappiamo che più giurisdizioni convivono sullo stesso territorio. Perché non introdurre allora dei “Comuni funzionali” che si occupino solo, per es., della depurazione delle acque su scala geografica ottimale?

In conclusione, la riforma politica coerentemente liberale (tralasciando la privatizzazione di alcuni servizi comunali) sarebbe molto semplice: abolire la perequazione intercomunale, trasformare gli attuali Consorzi in Comuni funzionali con proprie imposte e propri organi democratici, nonché permettere agli attuali servizi pubblici la secessione dal Comune costituendosi in consorzio autonomo e democratico.

Paolo Pamini economista, ETHZ e Istituto Liberale

[articolo pubblicato nel GdP del 4 dicembre]