Naturalmente se parli di festival di Sanremo e Celentano partecipi al rigonfiamento mediatico di quella sceneggiata italiana volgare e caciarona.
Ma ho visto un’ora di festival e mi sono imbattuto in chili di paginate giornalistiche fra l’indignato, il compiacente e il guardone e voglio deplorare la deriva totale di quella gara canora che un tempo accadeva ogni anno come una melodica sagra popolare.
Fui in passato un fedele di Sanremo. Quando ero piccolissimo, negli anni ’50, mia mamma lo captava in sfrigolanti programmi radiofonici e scriveva in fretta le parole delle canzoni per provare a cantarle: buongiorno tristezza amica della mia malinconia, sul vecchio ponte della valle aspetto te, vola colomba bianca vola e poi volare volare.
Ci furono le mille bolle blu di Mina, il ragazzo della via Gluck di Celentano (quello giusto, bravo) e il 4 marzo ’43 di Dalla.
Fui conquistato dal tenero Endrigo (la festa appena cominciata è già finita) e persino da Nada e Nicola di Bari, il cuore è uno zingaro e va, catene non ha. Ebbene sì, lo ammetto: mi piacque anche il trottolino amoroso di Mietta e Minghi.
I presentatori, con bastevole retorica ed eleganza (da Mike Buongiorno a Fabio Fazio, all’inossidabile Baudo) erano al servizio delle canzoni e non le canzoni al servizio di un minestrone a sensazione, gridato e volgare come oggi. Perché oggi la festa festivaliera è davvero finita.
L’imbarbarimento televisivo l’ha divorata e il grave è che la RAI è servizio pubblico con pubblica missione, senza la costrizione del profitto commerciale ad ogni costo, anche del degrado. Quella prima sera di martedì mi è bastata.
È anche una questione di stile: erano patetiche le rughe incipriate sotto la zazzera scura e improbabile del settantenne Gianni Morandi che con le sue braccia scimmiesche si ostina a travestirsi da giovane che andava a cento all’ora a trovar la bimba sua e a fare il presentatore garrulo quando il suo unico mestiere è quello di cantare («Notte di ferragosto», «Scende la pioggia», «Canzoni stonate» mi fecero balenare, quando fu il caso, lo struggimento delle canzoni d’amore).
Almeno Pippo Baudo col parrucchino color rame aveva il ritmo del presentatore professionista, anche se stagionato.
A parte ciò, ho assistito a un inizio allucinante di due comici pesantemente volgari, osceni, dentro la residua sacralità della prima serata della rete pubblica televisiva più popolare. E mettiamoci anche il tormentone dello «spacco inguinale» della vallettona con l’angoscioso dubbio amletico seminato dai giornali, aveva o non aveva le mutande, questo il problema.
E poi Celentano: strapagato (soltanto dopo è corso a parlare di beneficenza), chiamato a predicare quando lui sa solo cantare, investito di una missione sconcertante, quella di tenere proclami politici davanti a 15 milioni di telespettatori.
In nome di quale autorità, merito o mandato pubblico? Ha detto frasi sconnesse e gravi, insultando pesantemente giornali, istituzioni e persone assenti, con il pubblico di smoking ricchi e di labbra rifatte e i papaveri dei piani alti della RAI ad applaudire compiacenti.
Buon profeta, Francesco Baccini dieci anni fa cantava: “Stasera venti e trenta/programma eccezionale/ in diretta nazionale/un re ci parlerà/è il re degli ignoranti/Adriano è meglio che canti/Adriano, che parlare alla RAI, la RAI, la RAI, la RAI/”.
Raglio d’asino non giunge in cielo, si dice. Ma fa audience.
(Pubblicato il 20.2.2012 sul Corriere del Ticino. Per gentile concessione)