di Tito Tettamanti


Il Forum economico di Davos, geniale iniziativa del Professor Schwab, riunisce annualmente
una qualificata rappresentanza di operatori economici e li mette a contatto con Primi Ministri,
governanti, dirigenti di organizzazioni mondiali per utilissimi confronti.
Purtroppo anche organizzatori e partecipanti non sono riusciti a sottrarsi dalla pericolosa e fatua
influenza delle mode.
Nel 2019 la star di Davos è Greta Thunberg. La ragazza quindicenne strapazza i presenti
accusandoli di essere corresponsabili della catastrofe climatica. Nessuno degli astanti osa
proferire parola. Cito a memoria un articolo apparso di seguito sulla Neue Zürcher Zeitung per
la penna autorevole di Niall Ferguson. Riferisce come sorseggiando l’ultimo whisky i commenti
erano molto critici a proposito dell’intervento di Greta e di maggior considerazione per i pensieri
di Trump. Ma questo in privato. Oggi Greta Thunberg non fa più notizia.
Nello stesso periodo abbiamo la decisa presa di posizione della “Roundtable” che riunisce più
di 200 dirigenti delle più importanti aziende americane. L’argomento (di moda) è quello degli
“stakeholder”. Le società anonime interpreti della vita economica, impegnate a produrre
ricchezza, non apparterrebbero di fatto solo agli azionisti, quelli che rischiano investendo i loro
soldi, ma devono condividere la proprietà, anzi lasciare la precedenza agli “stakeholder”. E chi
più ne ha più ne metta. Questi non sono solo, come giusto, i collaboratori, ma clienti, fornitori,
più ancora parti della società civile, movimenti verdi o meno, rappresentanti di problematiche
varie della società. Il tutto, con punte di assurdità, sposta le funzioni economiche delle attività
societarie dalla produzione di ricchezza, con il problema della ripartizione, all’obbligo di
assumere responsabilità che esulano dalla propria competenza ed ostacolano la produttività.
Ma come mai proprio i massimi dirigenti di queste società si schierano per tali idee? Evidente:
ai gestori delle società conviene rispondere a più “padroni”, si confondono le responsabilità, gli
eventuali risultati insoddisfacenti potranno sempre venir giustificati dal perseguimento non solo
del profitto. Annualmente al normale rapporto sulla gestione si deve aggiungere un ancora più
voluminoso rapporto per provare che ci si è comportati bene, anche perché in materia ormai
non vale più come per tutti la presunzione di innocenza, si deve dimostrare di non essere
colpevoli (con aumento di costi e burocrazia interna).
Ma le mode originate da capitalisti ondivaghi e interessati continuano. ESG è l’acronimo per
Environmental Social Governance, che negli scorsi anni ha fatto furore. Non si deve più
investire per avere un reddito, prodotto il quale poi intervengono legittime esigenze di
distribuzione che riguardano i vari campi della socialità, no, si deve già investire socialmente. E
come?
Uno dei più entusiasti sostenitori di tali tesi è stato Larry Fink, che gestisce con BlackRock
11.000 miliardi di dollari e grazie a ciò è lui stesso miliardario in virtù delle commissioni di
gestione.
Sono fioriti i “fondi verdi”, fondi responsabili e con i soldi di investitori sensibili, da destinare a
rami economici ed attività che tengono conto delle esigenze climatiche, delle politiche verdi e
così via.
Ovviamente, trattandosi di fondi di una finanza sensibile a questi problemi, pare si sia ritenuto di
dover applicare commissioni maggiorate, per le quali la motivazione non è il clima ma i maggiori
utili per i gestori pure verdi. Con il passare di qualche anno si è però constatato che non solo
questi fondi costavano maggiormente agli investitori desiderosi di sostenere un mondo più
verde ma rendevano di meno e, ancora peggio, andando a vedere in dettaglio erano ben poco
verdi. Casse pensioni e fondi statali negli USA si sono resi conto dell’inghippo e minacciato di
ritirare i loro capitali dai gestori. Larry Fink e altri dinanzi alla reazione hanno pensato di
cambiare idea rinunciando agli entusiasmi. Tanto lui quanto altri grossi operatori e manager
degli USA hanno pure velocemente deciso di ritirarsi dall’iniziativa per il sostegno del clima
denominata “Net Zero Asset Managers”.
Pure a Davos quest’anno il vento è cambiato. Non è più un tema la fine della produzione di
carne. Lo è stato in passato. Leggo dai resoconti che di diversità e problemi di genere si è
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parlato poco e Guterres, Segretario generale dell’ONU, dai noti orientamenti già di moda, ha
parlato ad una sala mezza vuota. Milei, l’anarco-liberale Presidente argentino, lo scorso anno
accolto con qualche sorriso, quest’anno, anche in virtù di concreti successi, pure se la
scommessa è ancora aperta, è stato accolto da caldi applausi. Con attenzione si è ascoltato
Trump.
Intanto negli USA si ha notizia che numerose ditte tipo McDonald’s e Walmart riducono
pesantemente le misure prese frettolosamente (per ragioni di moda?) gli scorsi anni a proposito
di diversità, inclusione, uguaglianza di diritti, talvolta origine di altre disuguaglianze.
La mia diffidenza di vecchio conservatore nei confronti delle mode fatue e talvolta dannose, si
conferma.
Resto sempre convinto che il sistema migliore per creare ricchezza e benessere è il
capitalismo. Purtroppo è gestito dai capitalisti (ondivaghi).
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