Oggi è il 13 maggio 2021. Questa mattina, sulla tomba di San Giovanni Paolo II, sarà celebrata una Messa. Quarant’anni fa, infatti, il 13 maggio 1981, l’allor amatissimo Pontefice polacco subì un attentato da parte di Mehmet Ali Ağca, appartenente alla confraternita terroristica dei “lupi grigi”, estremisti turchi di destra e nazionalisti, fondata negli anni ’60 dal Presidente Erbakan, un killer professionista turco, che gli sparò due colpi di pistola ferendolo gravemente.

Wojtyla aveva appena tenuto l’udienza in piazza San Pietro, e stava salutando i fedeli percorrendo la piazza a bordo della papamobile. Quattro minuti dopo l’ingresso del Pontefice in piazza San Pietro, il turco Alì Agca premette il grilletto e sparò due colpi al Pontefice.
Gli stanti videro il Pontefice accasciarsi mentre sulla tunica bianca si allargava una macchia di sangue. L’attentatore fuggì, raggiunse il colonnato di piazza San Pietro, ma fu fermato da alcuni astanti. Urtò contro una suora, e gli cadde l’arma a terra. Riprese la corsa, ma fu bloccato e arrestato.
Il cardinale Stanislaw Dziwisz, che oggi ha 82 anni, segretario personale del Papa fino alla sua morte, era presente in quei drammatici momenti, che li descrive “sono incisi in maniera indelebile nella memoria e nel cuore”. Racconta che “è come se fossimo su quella jeep negli attimi immediatamente posteriori agli spari. Continuo ancora a sentire il suo corpo scivolare come paralizzato e cadere tra le mie braccia. Vedo il suo sangue colare sulla sua bianca veste pontificia, macchiando le mie mani e i miei vestiti. Sento anche una continua sempre più debole ripetizione dell’invocazione: “O Maria, o Madre mia!”. Da quel giorno so ormai cosa abbia sentito l’apostolo Giovanni sostenendo sulle sue braccia il corpo di Cristo tolto dalla croce”.
Dziwisz ricorda poi la drammatica “gara col tempo” per “non perdere la vita” di quello straordinario Pontefice. L’ambulanza con a bordo il papa gravemente ferito sfreccia da piazza san Pietro sino alla collina di Monte Mario per raggiungere il Gemelli.
Qui Wojtyla viene ricoverato, i dottori corrono, si affaccendano attorno alla vita di un uomo circonfuso già da un alone di santità. E in tutto il mondo, immediatamente, da Roma a Cracovia, parte una marcia, “la Marcia Bianca di Cracovia” di preghiere: i fedeli supplicano Dio per non perdere la loro guida, il loro pontefice.
Dopo solo otto giorni di processo per direttissima, il 22 luglio 1981, i giudici della corte d’assise condannarono Mehmet Ali Ağca all’ergastolo per tentato omicidio di Capo di Stato estero. La sentenza di condanna esplicitava che l’attentato “non fu opera di un maniaco, ma venne preparato da un’organizzazione eversiva rimasta nell’ombra“, mentre la difesa avrebbe voluto fare di Ali Ağca uno schizoide desideroso di divenire eroe del mondo mussulmano.
Un anno dopo, il Consiglio nazionale di sicurezza turco condannò a morte il proprio cittadino, anche per l’uccisione del giornalista Abdi İpekçi (Mehmet Ali Ağca era infatti un killer professionista, palese dimostrazione che screditava la tesi che avrebbe voluto farne, invece, uno schizoide), pena turca si rivelò però una farsa perché fu quasi subito tramutata, per un’amnistia, in dieci anni di reclusione. Ali apportò diverse tesi al suo gesto criminale, prima collegandolo all’Islam, poi al Comunismo.
Completamente riavutosi, due giorni dopo il Natale del 1983, Giovanni Paolo II visitò nel carcere di Rebibbia il suo attentatore. Non si seppero mai le parole che si dissero, si mostrava soltanto al mondo un Pontefice che parlava col suo aspirante assassino, una vittima che perdonava il carnefice.

Il 20 febbraio 1987 il Papa ricevette in udienza la madre e il fratello di Ali Ağca i quali gli chiesero di intercedere per la grazia: dopo numerose (e copiose) riduzioni di pena, finirono nel permettere all’attentatore di chiedere la libertà condizionata. Ali Ağca subì poi l’estradizione in Turchia, dove avrebbe dovuto espiare la pena, ma il 13 giugno 2000, il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi concesse la grazia. Ali Ağca viene estradato dall’Italia per imbarcarsi per Istanbul, dove scontò 3492 giorni, cioè i dieci anni per l’assassinio del giornalista Abdi İpekçi. Scarcerato definitivamente il 18 gennaio 2010 dall’istituto di pena di Sincan, alla periferia di Ankara, dopo alcune folli dichiarazioni di stampo apocalittico, intrecciò la sua figura a controverse ed angoscianti vicende vaticane, come quella della sparizione di Emanuela Orlandi: incontrò infatti il di lei fratello Pietro Orlandi, confidando all’uomo che la ragazza, sparita nel 1983, sarebbe stata ancora viva. In seguito a ciò non avvenne, però, alcun fatto concreto.
Pubblicò un’autobiografia, accusò come mandante del suo gesto prima il cardinal Casaroli, poi l’ayatollah Khomeyni, e dopo altre folli teorie, smentite, il 27 dicembre 2014, in occasione del trentunesimo anniversario del suo colloquio con il Papa nel carcere di Rebibbia, si recò a visitare la tomba di Giovanni Paolo II, dove depositò due mazzi di fiori.
Dichiarato irregolare dall’Italia, fu imbarcato Ağca per la Turchia il 29 dicembre 2014.
Oggi, nel giorno della Madonna di Fatima e dell’Ascensione di Nostro Signore, l’anniversario del tentato omicidio di un uomo divenuto santo, può far riflettere sul male del mondo, sul contrasto tra l’immensa luce e il buio più profondo.
Fonti: Avvenire, Repubblica, Wikipedia.