Klaus Schwab, fondatore e guida storica del World Economic Forum, ha annunciato le sue dimissioni dopo oltre cinquant’anni alla testa dell’organizzazione. La sua uscita di scena, a 88 anni, segna forse la fine di un ciclo: quello di un’élite globale che per decenni ha preteso di dettare l’agenda mondiale al di sopra delle nazioni, dei popoli e delle sovranità.
Il WEF, con sede a Ginevra, è nato nel 1971 come spazio di dialogo tra poteri economici, politici e culturali. In realtà, nel corso del tempo si è trasformato nel simbolo di un globalismo tecnocratico, dove pochi decisori, spesso non eletti, si riuniscono ogni anno a Davos per immaginare un futuro modellato secondo le logiche del profitto, della sorveglianza digitale e della centralizzazione del potere.
Sotto la guida di Schwab, il Forum ha promosso visioni post-nazionali, come il cosiddetto Great Reset, che puntano a un mondo sempre più interconnesso ma sempre meno ancorato ai valori identitari, alla cultura locale e all’autodeterminazione dei popoli. Un mondo dove le decisioni cruciali vengono prese da oligarchie finanziarie e multinazionali, e non dai governi legittimamente eletti.
Le recenti accuse di discriminazione e di gestione opaca all’interno del WEF, riportate anche da alcune testate svizzere, non sorprendono chi da anni denuncia l’incompatibilità tra i valori democratici e l’opacità di certe strutture sovranazionali.
Il consiglio del WEF ha nominato Peter Brabeck-Letmathe, ex presidente di Nestlé, come presidente ad interim. Una nomina che conferma l’intreccio fra il potere economico e quello ideologico che ha sempre caratterizzato il Forum.
Ma oggi il mondo è cambiato. I popoli reclamano voce. Le nazioni riscoprono le proprie radici. Il tempo delle élite che predicano l’apertura delle frontiere, la digitalizzazione integrale delle nostre vite e l’uniformità culturale sta volgendo al termine.
Ora più che mai, è tempo di difendere la sovranità nazionale, la famiglia, le tradizioni e la libertà dei popoli. Il tramonto di Klaus Schwab non è solo una fine personale, ma il simbolo di una crisi più ampia: quella di un progetto globale che non ha fatto i conti con l’anima dei popoli.
Che questo sia l’inizio di una nuova stagione di responsabilità, autodeterminazione e radicamento.
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