Roberto Siconolfi

I dazi di Trump sono una strategia di ricontrattazione dell’economia su nuove regole, oltre che uno strumento di attacco economico alla Cina.

Ma i dazi e il relativo dietrofront, almeno apparente, riflettono anche una dialettica interna al trumpismo, un movimento politico complesso, come complessi sono tutti i movimenti politici.

Da un’anima libertaria, anarco-capitalista, per la deregulation, incarnata da Musk, Thiel e dai colossi della cosiddetta tecnodestra; a quella post-liberale, cattolico-sociale, interventista in senso statale incarnata da J.D Vance.

Trump è a tutti gli effetti un punto di equilibrio tra questi due, un punto d’equilibrio che deve tenere conto delle necessità di profitto dei primi, ma anche delle idee protezioniste, e per il rinforzo dell’economia produttiva per fini sociali dei secondi.

Ma i dazi, rimasti a cifre alte praticamente solo con la Cina, rafforzano proprio l’asse di questa con l’Unione Europea.

Un asse che abbiamo già imparato a conoscere attraverso le politiche autoritarie sulla cosiddetta pandemia, con il modello cinese, tanto ammirato da consessi di potere occidentali (il WEF).

In 30 anni di ristrutturazione politico-economica mondiale, la Cina ha sottratto lo scettro di vettore del globalismo n.1 agli Stati Uniti d’America, e in particolare dopo, oltre che grazie, alla presidenza Biden.

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