Ottanta anni fa, a Berlino. Dunque parli dell’aprile 1945. Fra nove giorni sarà il 20 aprile — compleanno di Hitler. E dieci giorni dopo, il 30 aprile, la sua morte nel bunker.
Parole secche, le tue. Precise come una fucilata nella nebbia.
Che cosa ti spinge a ricordarlo oggi?
Vorrei che tu mi DESCRIVESSI quel giorno…
30 aprile 1945, Berlino.
Il cielo è basso e grigio, il rombo sordo dell’artiglieria sovietica non smette mai, un tamburo d’acciaio che batte da giorni. Berlino è diventata un guscio svuotato: macerie, strade impraticabili, palazzi spezzati come ossa secche. E sotto, nascosto come un animale braccato, il Führerbunker.
Là sotto, l’aria è densa, pesante. Odora di stanchezza, di sudore, di paura e disinfettante. Le pareti di cemento sono spesse, ma nemmeno loro riescono a tenere fuori la fine che avanza. È pomeriggio inoltrato. Hitler ha 56 anni, ma ne dimostra venti di più. Tremolante, ingobbito, cammina come un uomo consumato.
Ha detto addio ai suoi ufficiali più fedeli. Ha stretto mani, distribuito sguardi vuoti, come se stesse uscendo da un ricevimento. Accanto a lui, Eva Braun, che ha scelto di morire con lui due giorni dopo averlo sposato. Lei ha il vestito blu scuro. Lui, la pistola nella mano destra. Si chiudono nella stanza. Nessuno entra.
Un colpo secco. Poi il silenzio. Solo i tubi gocciolano, le pareti vibrano sotto i colpi lontani dei Katyusha sovietici.
Quando la porta si apre, il corpo di Eva è disteso, composto. Hitler ha un foro alla tempia, la pistola gli è scivolata accanto. Il suo volto è contratto, le mascelle ancora serrate. Magda Goebbels non versa una lacrima. Fra poco ucciderà i suoi sei figli.
Nel giardino della Cancelleria, due uomini versano benzina su due corpi avvolti in coperte. Il fuoco si alza, riluttante. I sovietici sono a pochi isolati. Berlino brucia. Berlino muore. Il Terzo Reich finisce in un rogo d’aprile.
Fuori, la primavera avanza a fatica. Una città cade. Un mondo si chiude.
Ma io volevo il VENTI, con Goering, Goebbels e tutti quanti…
Ah, il 20 aprile 1945 — l’ultimo compleanno di Hitler, quello che sembrava uscito da un dramma scritto dal destino con la mano febbrile. Berlino è già una città allo stremo, ma nel bunker della Cancelleria si tiene comunque una specie di celebrazione, una parodia funebre di quel che un tempo era il fasto del potere.
È il 20 aprile. Adolf Hitler compie 56 anni.
Ma non c’è torta, non ci sono fanfare. Solo il rumore costante dei bombardamenti sovietici che si avvicinano come un destino inesorabile. L’esercito rosso è ormai a pochi chilometri dalla capitale. Le SS controllano ogni ingresso, ogni sussurro. Il Bunker è pieno di occhi stanchi e volti tesi. L’aria puzza di chiuso, fumo, paura.
Uno dopo l’altro, i dignitari del Reich scendono i gradini verso la penombra.
Heinrich Himmler, cupo, rigido, già medita una fuga. Sta trattando segretamente con gli Alleati.
Hermann Göring, gonfio e impacciato, indossa ancora le sue decorazioni inutili. Saluta Hitler come un figlio che omaggia il padre, ma nei suoi occhi c’è qualcos’altro: calcolo.
Joseph Goebbels, invece, è l’unico che ancora crede. Fedele fino all’ultima parola, parla con voce rotta dall’emozione. Ha portato i suoi figli nel bunker. Li ucciderà tra dieci giorni.
Anche Albert Speer, l’architetto, viene. Guarda Hitler con un misto di pietà e repulsione. Anche lui ha tradito, o ci ha provato.
E poi i generali: Keitel, Jodl, Bormann. Tutti sanno. Tutti mentono.
La cerimonia dura poco. C’è un brindisi, vino annacquato, parole svuotate di senso. Hitler accenna un sorriso, un ghigno stanco. Riceve i saluti, si lascia stringere la mano. I suoi occhi sono vitrei. I tremori della mano sinistra più evidenti. Si sorregge al bastone.
Fuori, il mondo crolla.
Dentro, l’eco di una fine già scritta.
Fu l’ultima volta che molti lo videro in vita. E quella parata di gerarchi, di cariatidi in uniforme, fu come il giro di valzer finale del Titanic — nonostante l’acqua già in sala da ballo.
Emanuele Martinuzzi | “[..]tutto quello che ho scritto è come paglia per me, in confronto…
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