Bibbia

Ezechiele, il profeta biblico a cui Karl Jaspers diagnosticò la schizofrenia.

di Liliane Tami

Ezechiele, che visse la deportazione del Popolo d’Israele dopo alla terribile distruzione di Gerusalemme avvenuta per mano del malvagissimo Re Nabucodonsor nel 586, ebbe visioni celesti e con la sua mimica inscenò parabole viventi. Egli non si limitò a predicare: mise in scena il dramma del suo popolo, trasformando il proprio corpo e la propria vita in un teatro profetico, un palcoscenico su cui si rappresentavano le sorti di Israele.

Dalla casa sacerdotale alla chiamata divina

Figlio di Buzi, sacerdote dell’esilio, Ezechiele nacque attorno al 623 a.C. nella terra di Giuda, in un’epoca in cui il destino d’Israele era appeso a un filo. Deportato a Babilonia nel 597 a.C., visse la deportazione del suo popolo tra i flutti amari della nostalgia e il peso del giudizio divino. Era un giovane uomo sposato, di 30 anni, eppure la sua vita coniugale si infranse nel dolore profetico: Dio stesso lo privò della sua sposa, segno eloquente della desolazione che avrebbe travolto Gerusalemme (Ez 24,15-18).

Lo psichiatra Karl Jaspers. Sosteneva che Ezechiele soffrisse di turbe psichiche

Il “Figlio dell’Uomo” e le visioni sublimi

Dio lo chiamava “figlio dell’uomo” (ben adam), un titolo ripetuto decine di volte nel suo libro. Non era una semplice formula: era il monito costante della sua fragilità, un richiamo alla sua condizione mortale in contrasto con le visioni di gloria che gli erano concesse. Tra le sue estasi profetiche si stagliano quadri di incomparabile potenza: la Gloria di Dio su un carro di cherubini (Ez 1), le ossa aride che si rivestono di carne e vita (Ez 37), il nuovo Tempio che risplende come promessa di restaurazione (Ez 40-48).

Ezechiele non si limitava a parlare: egli incarnava il messaggio. Si sdraiava su un fianco per anni interi, mangiava pane cotto su sterco, si radeva la testa e gettava i capelli al vento, sigillava la propria bocca per giorni. Erano atti simbolici, parabole viventi, destinate a scuotere il cuore indurito del popolo. Perché tanto clamore? Perché l’uomo non ascolta se non ciò che gli lacera il velo della consuetudine. Israele, immerso nella sua cecità, aveva bisogno di scosse, di lampi, di gesti memorabili che penetrassero l’indifferenza come lama affilata.

Un folle o un veggente?

Ezechiele è tra i profeti più enigmatici, la cui esistenza si muove tra il confine della mistica e quello della follia. Alcuni studiosi moderni, tra cui lo psichiatra Karl Jaspers e lo storico James Kugel, hanno avanzato l’ipotesi che soffrisse di epilessia temporale o di una forma di schizofrenia, viste le sue visioni iperrealistiche e i comportamenti eccentrici. Tuttavia, per chi legge la sua opera con occhio spirituale, egli non era un folle, ma un ponte tra il visibile e l’invisibile, un uomo che portava sulle spalle il peso del Verbo divino.

La visione di Ezechiele del carro alato coi cherubini

Un messaggio di rovina e speranza

A chi parlava Ezechiele? Il suo pubblico era il popolo dell’esilio, sospeso tra disperazione e illusione. A loro annunciava il crollo imminente di Gerusalemme, ma anche la promessa di un ritorno, di una rinascita, di un Dio che avrebbe tolto il cuore di pietra e donato un cuore di carne (Ez 36,26). Nella sua voce riecheggiava il doppio battito della profezia: condanna e redenzione, giudizio e misericordia, morte e vita.

Così, Ezechiele, profeta dai gesti eclatanti e dalle visioni vertiginose, continua a parlare ai secoli. Egli ci insegna che il divino non è silenzio, ma tempesta; che il Verbo si fa carne non solo in un uomo, ma in un’intera esistenza donata a Dio. E che, anche tra le rovine dell’esilio, resta viva la speranza di una terra promessa.

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