di Fabio Traverso

L’ultimo film del celebre cineasta Pupi Avati, “l’orto americano” può essere considerato un mediocre thriller con venature horror, infarcito di incongruenze, anacronismi, ricadute nello splatter, se visto con le lenti del realismo cinematografico o  al contrario, un autentico capolavoro, se visto invece in chiave simbolica.

Poco interessa in questa sede la storia in se, che inizia come un caso di “amour fou” (ma può esistere in ultima analisi un amore razionale? ) nato da un breve incontro tra il protagonista e la sua donna angelicata, un’infermiera aggregata all’esercito USA a Bologna alla conclusione del secondo conflitto mondiale e continua con la cherche della fanciulla , dispersa nelle paludi del delta del Po ,forse vittima di un efferato assassino, che conduce il giovane protagonista dapprima nella provincia americana dell’Iowa e poi in quella padana, del tutto simile in quanto a paesaggi esteriori ed interiori.

E’ invece importante soffermarsi su due figure che assistono il protagonista nella sua ricerca: lo sciamano e il folle.

Il primo è padre Jesus , un dotto sacerdote che nella trasferta americana inizia il protagonista alle liriche di Pindaro e Bacchilide , fornendogli al contempo anche una chiave di lettura per risolvere la torva indagine poliziesca (tre donne fatte a pezzi da un pazzo criminale) che dovrà affrontare una volta rientrato in Italia.

Il secondo è Ariano, una tipica figura di “folle di Dio” ovvero di pazzo inoffensivo compagno di cura del protagonista quando questi sua malgrado verrà internato in un manicomio non essendo stato creduto dalle autorità quando avrà scoperto il mistero dei delitti .

Sarà infatti Ariano ad indicargli “l’ultima casa prima che il fiume diventi mare”, la dimora dove potrebbe aver trovato rifugio la giovane oggetto della sua ricerca e dove troverà ostello anche l’innominato protagonista.

Sono due figure , quella dello sciamano e quella del folle, che l’attuale società capitalista iper tecnologicizzata relega ai propri margini , ma che sono le sole a parlare il linguaggio degli uccelli su cui si sofferma un verso del poeta Bacchilide fortunosamente rinvenuto nell’orto che da il titolo al film.

Il lascito del regista ottantasettenne in quello che potrebbe essere uno dei suoi ultimi film  per chi lo sappia intendere, è proprio questo: ciò che cerchiamo non è in questa terra , ciò che desideriamo lo potremo trovare solo in una casa alla fine del grande fiume, un luogo che forse non esiste.

Per tornare a Pindaro come recita il poeta “Né per terra né per mare troverai il paese degli Iperborei”.

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