di Indro D’Orlando
Nelle pagine machiavelliane, la tematica religiosa è una presenza costante. Un’osservazione acuta e che potrebbe sorprendere coloro che, dell’opera del grande fiorentino, sanno poco, o poco più di quello che si è detto, e si dice tuttora, sull’autore del Principe, da molti definito «diabolico» o «immorale».
Da una lettura attenta delle pagine machiavelliane si evince che lo Stato, che sia un principato o una repubblica, non può «costruirsi» astrattamente come una potenza sovrana, oppure come una «macchina» della ragion di stato. Contrariamente alla concezione e costruzione teorica dello Stato di Hobbes, per il Machiavelli, non basta un teorico «patto», seppur conveniente e razionale, per garantire l’unità politica della collettività civile.
Nella meditazione machiavelliana appare chiaramente l’irriducibilità del popolo ad una semplice unità teorica, costruita razionalmente. Anche questo fatto potrebbe sorprendere, soprattutto per chi si ricorda che dell’autore del Principe si è fatto il presunto fondatore della cosiddetta “scienza politica”. Ma, Machiavelli non è Hobbes. Contrariamente al pensatore inglese, il pensatore fiorentino volle capire da dentro i motivi profondi che fanno e muovono la politica. E ciò, senza compromessi, senza imbarazzo innanzi all’enigmatica natura umana. Machiavelli lo volle fare e lo fece, certo, razionalmente, ma senza teorizzazioni, senza idealizzazioni umanistiche, senza presupposti teologici. Lo fece osservando il presente, meditando il passato, senza alcuna mediazione che non fosse la propria esperienza e la propria intelligenza.
Disse bene, Luigi Firpo: “come l’anatomico osò immergere il suo coltello e guardare, così Machiavelli indagò l’animo umano con impavida determinazione”.
Per Machiavelli, la verità dell’Uomo è che la vita umana, concreta, è travagliata da un insieme di bisogni primari, pulsioni, tensioni, di conflitti interiori ed esteriori: l’esistenza umana è, in sintesi, un «campo di battaglia».
E anche se sulla natura divina dell’Uomo, Machiavelli preferì non sentenziare, lasciando ad altri il compito di farlo; nondimeno, e anche se agli uomini la capacità di essere virtuosi da lui è stata ribadita spesso e con forza, molte sue parole non lasciano dubbi sulla sua capacità di voler vedere, anzitutto, l’animo umano nella sua concreta ferinità: “solamente l’uomo l’altr’uomo ammazza, crocifigge e spoglia”. Questo è il suo assunto. Da qui parte la sua meditazione.
Se, dunque, per Machiavelli, gli uomini non sono, naturalmente inclini al ‘Bene’, l’esigenza di capire l’animo umano appare, dunque, prioritaria e fondamentale per qualsiasi fondazione di una «buona politica», ovvero di una politica che miri al «bene comune».

Il pensatore fiorentino capisce che la natura umana va compresa da «dentro». In altre parole, non servono le teorizzazioni sul buon governo, sull’arte politica, se non si conosce ciò che lo muove realmente: l’animo umano.
Questa è la grande lezione del Machiavelli: una politica ignara della natura umana e delle reali potenze dell’anima è destinata a fallire o ad essere sconfitta. Insomma, aspirare al bene pubblico non è sufficiente perché, se esso deve farsi, incarnarsi, è necessariamente condizionato dagli individui che debbono attuarlo con il proprio animo, il quale, altro non è che il prodotto della vita interiore di ogni uomo.
Pertanto, che cosa per Machiavelli determina, orienta l’animo umano? In altre parole, di cosa è fatta la «vita dell’anima»?
Michele Ciliberto riassume molto bene il punto centrale dal quale muove il pensiero machiavelliano in merito al nesso tra religiosità, civiltà e politica:
“in Machiavelli la religio, proprio perché «vincolo», è il fondamento prepolitico, preistituzionale del «vivere civile»; ma in una prospettiva che – ben guardandosi dal separare morale e politica, pubblico e privato – vede nella religione il fondamento originario e – in quanto tale tutt’altro che privato – della potenza di una città, di uno Stato. Così intesa, per Machiavelli, la religione è il livello elementare, e per questo più forte e più decisivo, della convivenza civile, ed è la pietra di paragone di tutti i comportamenti sia pubblici che privati.”
In Machiavelli la chiave di volta che unisce religiosità e civiltà è il tema dell’anima. Esso costituisce il nesso fondamentale tra religiosità, politica e vita civile.
La sua riflessione filosofica sul fenomeno politico va dritto al punto: se, come lo dimostra la storia umana, la natura dell’uomo non basta perché limitata e corrotta dal peccato originale oppure dalla natura stessa fatta di istinti, pulsioni; se la psiche è fragile, ambigua, duttile e in cerca di senso, la stessa collettività politica non può fondarsi sulla natura umana e sulla psiche abbandonata a se stessa. La natura non può bastare, l’animo umano necessità di contenuti superiori orientanti. Questa è ciò a cui arriva Machiavelli.
Ma un culto senza mito non ha alcun senso. Il ruolo del culto, afferma l’eminente storico delle religioni Mircea Eliade, è di ritualizzare il mito fondante che dà senso e significato simbolico al culto.
i miti sono, di fatto e prima di tutto, delle narrazioni e, quindi, delle immagini. E di che cosa queste immagini sono immagini?
Nell’accezione junghiana del termine, ‘archetipo’ è inteso come «forma preesistente», nel senso che preesiste – nelle profondità psichiche – ad ogni forma concreta, ad ogni manifestazione empirica. È un modello che struttura le informazioni ottenute, coscientemente o no, tramite l’esperienza. In quanto ‘arché’ l’archetipo è originario, ovvero «strutturante». In quanto ‘typos’ imprime e forma, quindi «informa».
Pertanto, in questa ottica, il mito non è l’archetipo, ma sta all’archetipo come suo «effetto». Infatti, un aspetto decisivo dell’archetipo inteso junghianamente è il fatto che esso è – nella dimensione empirica – non solo immagine, ma anche “dynamis” e, quindi, «azione»: un fattore psichico effettivo, concreto che struttura e informa il ‘pensare’, il ‘sentire’ e il ‘volere’ degli individui, nonché delle collettività.
I miti nella prospettiva junghiana sono simboli archetipici che improntano atteggiamenti dotati di senso e significato: in quanto ‘simbolo’ (dal greco ‘syn’-‘ballein’) il mito «unisce» inconscio e conscio ed è capace di rendere esperibile l’archetipo portandolo parzialmente a coscienza. Quindi, il mito inteso come simbolo archetipico, nella visione junghiana, è considerato un fattore che investe la coscienza di senso e significato portando l’animo umano all’azione.

Se Machiavelli fu, dunque, grandioso nel mettere a nudo le fredde logiche del politico, egli vide anche altro: la religiosità – come struttura universale della coscienza umana – rappresenta un fattore psichico costruttivo per la comunità politica. Machiavelli raggiunge la comprensione di un elemento antropologico fondamentale per comprendere le dinamiche psichiche e politiche non solo degli individui, ma anche delle collettività: senza contenuti «superiori», ovvero archetipici, di senso e significato per l’agire umano, l’individuo nonché le collettività umane non possono realmente unirsi in un progetto condiviso che abbia un senso e significato per tutti i membri della collettività. In poche parole: lo Stato, per Machiavelli, senza «anima» non può farsi e durare stabilmente.
Jung afferma che
“la funzione dei simboli religiosi è quella di dare un significato alla vita dell’uomo. (…) Il senso di un significato superiore dell’esistenza è ciò che innalza l’uomo al di sopra della sua condizione elementare. (…) L’uomo moderno non si rende conto di quanto il suo «razionalismo» (che ha distrutto le sue capacità di rispondere ai simboli ed alle idee soprannaturali) lo abbia posto alla mercé del mondo sotterraneo della psiche.”
Come osserva Machiavelli, nel capitolo XII del primo libro dei Discorsi, una comunità civile e politica è tale se unita e vissuta, anzitutto, nell’individuo stesso che partecipa al «rito politico», il quale nella sua essenza è sempre e comunque di tipo religioso, ovvero unificante. Infatti, un vero rituale unificante è la rappresentazione concreta, “esperienziale” di un mito archetipico e parteciparvi significa prendere parte al mito e assumerne il senso e significato. Ecco, dunque, il ruolo fondamentale dei profeti, dei poeti, dei filosofi, insomma, di queste figure del sacro che sono portatrici d’ispirazioni formative e orientanti per la comunità degli uomini. L’anima umana abbisogna di questi contenuti e soltanto una politica accorta di questo fatto e consapevole della complessa «realtà archetipica», può trarne un concreto vantaggio per il bene degli individui e, di conseguenza, della collettività. La riduzione antropologica operata negli ultimi due secoli, a scapito dell’anima umana, ha generato un oblio pericoloso: senza religio non esiste civiltà, la politica è in balia della natura umana. L’uomo senza le potenze dell’anima è solo un animale politico pronto a tutto pur di mantenere il potere, perché
“solamente l’uomo l’altr’uomo ammazza, crocifigge e spoglia.”