L’Italia, terra di eccellenze gastronomiche, ha sempre fatto della qualità e della tradizione un vanto internazionale. Tuttavia, dietro le etichette rassicuranti di molti prodotti IGP (Indicazione Geografica Protetta) si cela spesso un’amara verità: l’ipocrisia di un sistema commerciale che sfrutta marchi territoriali prestigiosi per mascherare materie prime importate da ogni angolo del pianeta. Uno degli esempi più emblematici è quello della Bresaola della Valtellina IGP, un prodotto che porta con sé il sapore delle Alpi lombarde, ma che ha origine, ironia della sorte, nelle immense pianure dell’America Latina.
La Bresaola della Valtellina, con il suo marchio IGP, evoca immagini di pascoli alpini e di un’arte norcina tramandata nei secoli. Tuttavia, pochi consumatori sanno che la stragrande maggioranza della carne utilizzata per la sua produzione proviene da Brasile, Argentina e Uruguay. Si tratta di bovini allevati a migliaia di chilometri dall’Italia, spesso in condizioni discutibili e con impatti ambientali devastanti, tra cui la deforestazione dell’Amazzonia per fare spazio agli allevamenti intensivi.
L’industria alimentare, con la complicità delle certificazioni europee, permette di mantenere l’etichetta IGP semplicemente perché la lavorazione avviene in Valtellina. Questo è sufficiente per trasformare un prodotto sudamericano in un simbolo della tradizione italiana, ingannando il consumatore medio che crede di acquistare un’eccellenza locale.
La vicenda della Bresaola della Valtellina non è un caso isolato, ma un esempio lampante delle contraddizioni dell’agroalimentare moderno. La globalizzazione ha reso economicamente conveniente importare carne da migliaia di chilometri di distanza, con costi di produzione inferiori e standard di qualità spesso inferiori rispetto a quelli italiani. Nel frattempo, gli allevatori locali faticano a sopravvivere, schiacciati dalla concorrenza sleale di un mercato che premia il risparmio a discapito dell’autenticità.
Si assiste così a una profonda distorsione del concetto stesso di “made in Italy”: un prodotto può vantare una certificazione IGP pur essendo, nella sostanza, frutto di una catena produttiva internazionale che nulla ha a che vedere con il territorio che dovrebbe rappresentare.
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