Ancora nel settembre 1941, quando Leningrado era quasi totalmente circondata da un anello di truppe tedesche, l’altra mia nonna Elena saliva su un vagone adatto al trasporto di merci o di animali, non certo di persone. Il treno di soli 4 vagoni portava operai e impiegati della ferrovia con loro famiglie verso il nord-est, ad Arkhangelsk. Le ferrovie erano strategicamente molto importanti e il paese abbisognava di specialisti.
Elena aveva con sé due figli, mia mamma di 11 anni e il fratellino di 9. Suo marito era sceso dal treno ed era andato a prendere le valigie. Il treno poteva muoversi in ogni momento. Esplosioni e spari si sentivano sempre più vicini. Che cos’avrà pensato, Elena? Sola, con due figli piccoli, in quel vagone di ferro pieno di gente in piedi. Lasciata la casa e in partenza per luoghi lontani. Ecco che il nonno è tornato. Ha buttato una specie di materasso sul pavimento perché si potesse almeno viaggiare seduti. La mamma era molto dispiaciuta di aver dovuto abbandonare una sua valigetta con i suoi libri e una bambola. Ma suo padre aveva detto: “Prendiamo solo ciò che è necessario”. La sua responsabilità era una sola: salvare la famiglia. Tutto il resto veniva dopo.
Dopo la guerra Elena è tornata con i suoi due figli. Mia mamma aveva una nuova bambola fatta a mano, di stracci e tessuti. Il marito di Elena, mio nonno, era tragicamente morto, senza sapere della nostra Vittoria.
Ma che scelta ha fatto Sophie, là sulla riva del lago Ladoga? Non alta, affamata e debole sembrava ancora più piccola. Con due bambini, incinta del terzo figlio, con quel poco che aveva potuto prendere con sé. La guerra, incominciata con l’attacco tedesco del 22 giugno 1941, durava ormai da quasi un anno. Nella loro rapida avanzata i nazisti avevano già ucciso molti civili, donne, anziani e bambini. Era il tempo delle vacanze scolastiche e molte famiglie avevano lasciato la città per andare in visita a parenti. Forse Sophie seppe solo dopo la guerra che suo padre e sua sorella con i suoi figli erano stati catturati e seppelliti vivi dai fascisti, insieme a centinaia di donne, vecchi e bambini, dopo essere stati costretti a scavarsi la fossa con le loro stesse mani.
Sophie è tornata con i suoi “figli del Capitano Grant”, ormai divenuti tre. Ha ritrovato suo marito, ferito ma vivo. Il loro bell’appartamento era stato occupato da altra gente; i loro mobili erano stati tutti bruciati. Per fortuna riuscirono a procurarsi un nuovo appartamento grande, vicino alla loro vecchia casa, sempre nel centro storico.
Da piccola, quando visitavo i miei nonni, mi chiedevo il perché di questa loro passione per la porcellana, il bronzo, il cristallo. Perché avessero comprato dei mobili e un pianoforte antichi. Mi piaceva guardare le loro statuine, la loro collezione di quadri. Solo quando sono cresciuta e diventata mamma ho capito. Nel tempo guerra avevano perso tutto ma erano fortunatamente rimasti vivi. Avevo volevano il meglio per sé e per i loro figli.
Parliamo di numeri. In 881 giorni di assedio Leningrado è stata bombardata per 661 giorni, dagli aerei e dall’artiglieria. 100 mila bombe e 150 mila granate. Nessun vetro è rimasto intatto. Sotto le bombe sono morte 16’747 persone. Altissimo il numero di feriti. Spaventoso il numero dei morti per fame: 642 mila (ma una stima ufficiosa sale a 850 mila). Sono stati organizzati 80 istituti per orfani. Dalla città sono state evacuate circa 488 700 persone, tra cui più di 220 mila di bambini. Tra loro mia mamma e papà con i loro fratelli.
Nel cimitero Piskarevskoe – cimitero ufficiale della Leningrado assediata (oggi San Pietroburgo), c’è un monumento gigante alla Madre e un fuoco perenne. Incisa sul granito c’è una poesia di Olga Bergolts, che durante tutto l’assedio lesse i suoi versi alla radio di Leningrado. Una sua frase è diventata celebre: “Nessuno è dimenticato e niente è dimenticato”.
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