Primo piano

Bologna, 2 agosto 1980 nel brano di Rocco Rosignoli

Quando lo senti cantare, di storia, di guerra, di amore, di morte, ti commuovi. Non ci puoi fare niente, perché le canzoni, scritte e cantate da Rocco Rosignoli parlando di quello che siamo, di quello che siamo stati e di quello che sempre, infondo, l’uomo sarà. Amore e dolore, guerra e pace: è come se Rocco Rosignoli traesse una sintesi poetica, sapientemente cesellata in testi da lui stesso composti, da un romanzo meditativo sulla storia e sull’umanità di Tolstoj. Sembra un cavaliere del Regno Longobardo, coi capelli lunghi e la voce calda e profonda, un templare quando canta in ebraico, ma si trasforma in un partigiano della Resistenza, quando canta “Fischia il Vento” o “Bella Ciao”, tutte reinterpretate con il suo stile, guerresco e romantico al contempo. E poi ci sono altre storie, come quella di Giordano Bruno, quelle legate al folklore anglo-scozzese e irlandese, alla cultura ebraica, e della Strage di Bologna, di cui oggi ricordiamo l’anniversario, tutte tragiche e delicatissime, che lui canta con garbo e sapienza. Laureato in Lettere Moderne all’Università di Parma, Rocco Rosignoli scrive testi dai riferimenti estremamente colti e lampanti, poi li canta e li suona. Oggi, 2 agosto 2024, in occasione dell’uscita del suo brano sulla Strage di Bologna, l’artista si racconta a Ticinolive.

Come nasce la tua passione per la musica? 

Attorno ai nove-dieci anni, con un amico, ci divertivamo a riprodurre le melodie delle canzoni dei Nomadi o degli 883 sulle nostre tastiere giocattolo. L’anno dopo, ebbi finalmente il coraggio di togliere dal muro a cui era appesa una chitarra classica appartenente a mio zio, che l’aveva trovata abbandonata in un locale che gestiva, e da buon falegname qual era l’aveva aggiustata. Nessuo la sapeva suonare in casa, solo il fidanzato di mia zia, che poi l’ha sposata (mia zia, non la chitarra) e oggi è mio zio, ogni tanto la prendeva in mano e la faceva rivivere. Io iniziai a studiarla con un corso di chitarra classica, che lì per lì trovai noioso, ma in realtà mi diede basi molto solide su cui ho potuto lavorare tantissimo da autodidatta.

Come nasce questo tuo profondo impegno storico, politico e sociale?

Prima di tutto ci sono convinzioni politiche forti che guidano la mia vita e il mio agire quotidiano prima ancora del mio modo di fare musica: sono un comunista, e lo dico senza imbarazzo di alcuna sorta. In campo musicale, il mio riferimento sono sempre stati i cantautori storici, che scrivevano e cantavano in un’epoca in cui il personale e il politico tendevano a coincidere. I loro riferimenti erano canti, cantanti e autori che erano molto spesso ben più “politici” di loro, negli intenti e nella forma delle loro composizioni – dall’esperimento meraviglioso dei Cantacronache, ai Dischi del Sole, ai canti di Pietro Gori e Luigi Molinari. Amando e approfondendo i cantautori, sono finito a misurarmi coi loro stessi ispiratori, e ho pensato che il panorama che che volevo disegnare avrebbe dovuto essere una sintesi fra quei due mondi. Non so se ce l’ho fatta, ma il mio lavoro tende in quella direzione. 

Oggi è l’anniversario della strage di Bologna. Tu hai saputo dedicare un brano “10 e 25” a questa immane tragedia. “Ogni valigia racchiude un cuore che il viaggiatore tiene nascosto / racchiude un cuore che può scoppiare nell’aria torrida del 2 d’agosto” Cosa ti ispira a scrivere i tuoi testi? 

Ogni volta è diverso. Questa canzone è nata esattamente il 2 agosto del 2023, leggevo i social che traboccavano di ricordi e commemorazioni di quel crimine orrendo. E mi è venuto di getto di scrivere una canzone che ne parlasse. Ho scritto una prima versione del testo in mezz’ora, poi l’ho ampliato in un secondo momento. A dare il via alla costruzione del brano è stata proprio l’immagine del cuore nascosto in valigia, che in senso figurato è l’enigma che ogni compagno sconosciuto di un viaggio in treno porta dentro di sé. Quel cuore che, sui treni estivi, può “scoppiare” per il caldo; ma l’immagine allude ovviamente all’esplosivo contenuto in quella valigia che, alle dieci e venticinque del 2 agosto 1980, esplose nella sala d’attesa della stazione di Bologna Centrale, uccidendo 85 persone e ferendone più di 200. 

Clicca qui per ascoltare la canzone 10:25 sulla strage di Bologna.

Come fai a trarre rime poetiche anche in un contesto così tragico?  

Quale contesto è più adatto alla poesia della tragedia? La tragedia è un genere letterario, e quella greca, e poi latina, si svolgevano in versi – che, per giunta, erano cantati. L’impossibilità di dare agli eventi della realtà un corso differente da quello a cui sono destinati ha bisogno di essere descritta con un linguaggio che non può essere quello quotidiano; ha bisogno di essere evocata, perché va oltre ciò che si può comunicare. Ha bisogno di essere “sentita”, “sofferta”, prima ancora che compresa, perché forse comprenderla, ossia abbracciarla nella sua totalità, non si può, per quanto è sconfinata. E allora ci viene in soccorso la poesia, e l’arte in generale. L’arte continua a esistere anche in questo tempo che sembra negarla, piegandone le tecniche a favore dell’utile. Perché, come scrisse Nietsche, “abbiamo l’arte per non morire della verità”.

E poi, nel brano, arriva una condanna: “Se Fioravanti e Francesca Mambro negano ancora di esser coinvolti / la commissione ha sgombrato il campo / gli altri colpevoli ormai son morti / se la giustizia ha un esecutore, ancora il mandante resta nascosto / son gli strateghi della tensione / son gli impuniti del 2 d’agosto” Come possiamo giudicare, oggi, la mancata giustizia per la Strage di Bologna? 

Ormai sappiamo con un buon margine di certezza che i servizi segreti (“deviati”, si dice) hanno avuto un ruolo nell’impedire che sulla responsabilità per la strage fosse fatta luce completamente. La cosiddetta “strategia della tensione” è stata una solida realtà, della quale la strage del 2 agosto 1980 non è che l’ultimo, abnorme episodio. Una strategia volta a creare un nemico comune per quel popolo che, negli anni più intensi delle lotte sociali, era scomposto in blocchi compatti divisi per classi e ideologie, e consentire a una determinata scena politica di agire nel nome del presunto “bene comune” andando in una direzione contraria a quella che volevano le piazze e le strade, allora più calde che mai. La tragedia è che questa strategia abbia funzionato, amputando della propria volontà una società in rapido progresso, naturalmente a favore delle classi dominanti.

Oltre a cantare, sai suonare diversi strumenti. Quali? Come scegli quale abbinare alle tue canzoni? 

Il mio primo strumento è la chitarra, soprattutto quella classica. Poi ho studiato per alcuni anni anche il violino, oltre al mandolino e alla mandola. Suono poi il bouzouki greco, l’oud arabo, e negli ultimi anni mi è capitato sempre più spesso di esibirmi anche con la fisarmonica, che ho iniziato a prendere in mano quasi per gioco ma che si è subito rivelata uno strumento molto richiesto dai gruppi teatrali con cui spesso lavoro. Suono anche il basso, e in studio uso anche le tastiere, sia elettroniche che reali (in particolare, un armonium indiano dal suono ricco e delicatissimo). Lascio che sia il carattere stesso delle canzoni a decidere quale veste riceveranno. 

“Gerusalemme sei d’acciaio, di piombo fuso e tenebra / non son crollate le tue mura ma dov’è la libertà? […] Anche l’esercito Giordano in fuga ripiegò / ora al Mar Morto si può andare anche da Gerico / si può salire alla Spianata, chinarsi al muro / e nella luce della sera risplendi d’oro” – Di cosa parla Gerusalemme d’acciaio

Gerusalemme d’acciaio è una canzone che ho tradotto da un brano originale israeliano del 1967, Yerushalayim shel barzel, che a sua volta è una riscrittura della famosissima Yerushalayim shel zahav, “Gerusalemme d’oro”. Quest’ultima, quella “d’oro” per intenderci, fu scritta da Naomi Shemer, importantissima cantautrice israeliana, e nel suo testo aveva una forte vena nazionalistica. In particolare, dopo la guerra dei sei giorni del 1967 e la conquista di Gerusalemme est da parte dell’esercito israeliano, la Shemer aggiunse una strofa patriottica e celebrativa. A Meir Ariel, un cantautore altrettanto importante ma di altro orientamento, non piacque la retorica usata da Naomi Shemer. Così riscrisse il testo, per poi cantarlo sulle stesse note, trasformandolo in una canzone che anziché celebrare il trionfo descrive l’orrore, immedesimandosi anche nel dolore del nemico sconfitto, di cui vediamo descritte le madri in lutto. L’ebraico è una delle poche lingue che possiede una parola per descrivere il lutto del genitore che ha perso un figlio, “shacol”. Gerusalemme d’acciaio ci ricorda che nessuna vittoria in guerra è completa, e che nessuna libertà è mai realizzata se al suo fianco non trova spazio anche la pace. Sorprendentemente, nonostante la distanza ideologica, la versione di Meir Ariel fu apprezzata anche da Naomi Shemer stessa.

Tu insegni e canti anche musica ebraica e conosci l’ebraico. Con i voli cancellati per Tel Aviv da tutte le compagnie aree, c’è il rischio di perdere un’imprescindibile parte di storia dell’umanità, che viene così tagliata fuori a causa dei turpi eventi contemporanei?

Credo che in realtà siano più i tentativi di boicottaggio a rendere un tale rischio verosimile. In un momento storico come questo, dove la guerra infiamma luoghi lontani e animi vicini, è difficile avere la lucidità di distinguere fra un popolo e chi lo governa. Chiudere le porte delle comunità scientifiche agli studiosi israeliani perché il governo sta conducendo una guerra impietosa con metodi criminali non fermerà alcun orrore, produrrà anzi una maggiore sensazione di accerchiamento e solitudine nella società civile israeliana, anche in quella numerosa fetta di popolazione che a questo governo è sempre stata contraria. I cittadini non sono i loro governanti, e il sapere non deve subire boicottaggi.

Il sostegno alla causa palestinese, dopo le stragi di Gaza, esploso in molte parti d’Europa e del mondo, può generare un nuovo, rischioso antisemitismo, anche culturale?

Credo che l’antisemitismo sia parte del DNA dell’Europa. I primi provvedimenti antiebraici li troviamo nel diritto romano del quarto secolo, dopo la vittoria del cristianesimo, che in tutta Europa rimane poi la corrente culturale egemone fino almeno al 1800, e che ancora oggi è un tratto culturale forte, benché non più centrale. L’antigiudaismo di matrice religiosa ha chiuso gli ebrei nei ghetti per tre secoli, dal 1555 al 1800. Ha costruito i pregiudizi su cui, concimato con un bel po’ di pseudoscienza, si è innestato l’antisemitismo razzista dei nazisti e dei fascisti. L’antisemitismo fa parte della cultura europea, ne è il suo lato oscuro, è il padre di tutti i razzismi ed è trasversale alle correnti politiche. Ci siamo illusi che la tragedia della Shoah, la fabbrica della morte su scala industriale, fosse stata un insegnamento. Ma Auschwitz non era una scuola. 

​Oggi non si sta generando un nuovo antisemitismo: è sempre lo stesso, era lì, non si è mai mosso. Il sostegno alla causa palestinese, che di per sé non è un atto di antisemitismo, fa però sì che ora, per chi di quell’antisemitismo è depositario (in genere inconsapevole), sia meno sconveniente lasciare che emerga. Il discorso, ovvio ma non scontato, è sempre lo stesso: gli ebrei non coincidono con gli israeliani, i quali comunque non coincidono coi loro governanti. Eppure, alla luce della guerra in corso, per molti fare questa distinzione fondamentale non è così importante. Addirittura c’è chi trova sbagliato chiedere, insieme al cessate il fuoco, la liberazione degli ostaggi israeliani prigionieri fin dal 7 ottobre. Ostaggi civili, persone in gran parte impegnate in progetti di pace e cooperazione… premettendo che sono da sempre pacifista e che vorrei il cessate il fuoco immediato, queste sono posizioni che non posso condividere. 

In un tuo video racconti dei Partigiani ebrei che combattevano nei ghetti di Vilna, Varsavia, e persino nei borghi italiani, come quello di Borgotaro (PR), laddove combatté Cesare Bassani, partigiano ebreo col nome di Sam, autore dell’“Inno del patriota” che tu canti: (“al piano tornerem per la battaglia, per la vittoria / noi vivremo in un fulgor di gloria, sorrideremo nel vivere la vita / sul campo sorgerà la nuova Italia”). Talvolta, il 25 aprile, avvengono oltraggi alle Brigate Ebraiche. Ci si dimentica del sacrificio di questi eroi? 

Va detto che, storicamente, in Italia non sono esistite formazioni partigiane specificamente ebraiche. Gli ebrei italiani prima del 1938 erano in Europa tra i più emancipati e meglio integrati nella società, e quelli che dopo l’8 settembre 1943 scelsero la lotta partigiana lo fecero aderendo alle formazioni più vicine al loro credo politico personale, o a quelle con cui gli era più facile entrare in contatto, per conoscenze dirette o vicinanza geografica. Per dire, Cesare Bassani, che citi, era nella Prima Brigata Julia: partigiani cattolici! Altri, come Remo Coen, per restare nel nostro territorio, combatterono nelle Brigate Garibaldi, organizzate dalla rete clandestina comunista rimasta faticosamente in piedi anche durante il ventennio. Primo Levi fu partigiano nel Partito d’Azione clandestino.

​Quella della Brigata Ebraica è una storia diversa, e non meno importante: si trattava di una divisione dell’esercito inglese, soldati ebrei parlanti la lingua ebraica, provenienti da quella che allora era la Palestina Mandataria Britannica, oggi Israele, dove già dagli anni ’80 del diciannovesimo secolo si andava costituendo un insediamento ebraico fortemente motivato a costruire un proprio stato. La costituzione della Jewish Brigade fu una scelta importante, si dava per la prima volta la possibilità a dei soldati di combattere in quanto ebrei, di andare a contrastare i nazisti indossando con orgoglio il Maghen Davìd, lo “scudo di Davide”, la famosa stella a sei punte, che da simbolo di infamia diventava livrea di riscatto. In Italia il loro passaggio fu limitato a poche zone di combattimento vicine all’Adriatico, in particolare nella valle del Senio. In quelle zone il loro apporto fu decisivo per la vittoria. 

​Le polemiche legate alla sua presenza nelle manifestazioni del 25 aprile sono figlie di una rilettura della storia fatta con una griglia ritagliata sulla visione post-bellica, anzi direi post ’67, del sionismo e dello Stato di Israele. Personalmente, pur da “veterocomunista” quale sono, queste polemiche mi hanno sempre trovato in disaccordo: io non credo che la memoria possa essere rifiutata solo perché è scomoda – anche se comprendo che, nella costruzione di un’identità collettiva, la rimozione sia un automatismo, un espediente quasi inevitabile. In quel momento, la Brigata Ebraica ha combattuto in Italia, e da quella che noi oggi giudichiamo la parte giusta. La sua presenza il 25 aprile non dovrebbe essere offensiva per nessuno.

​Un’unica postilla mi sento di aggiungere: non vorrei guardare né ai partigiani italiani né ai volontari della Brigata Ebraica come a degli eroi, benché tra le loro fila gli esempi di eroismo siano stati talvolta fulgidi. Si tratta di persone comuni, che per le motivazioni più varie hanno compiuto una scelta. Uomini e donne che in genere per primi erano soliti respingere ogni tentativo di dipingerli come eroi: tutto ciò che volevano era una vita normale, e per guadagnarsela hanno dovuto fare i conti con qualcosa che non avrebbero mai desiderato, come il rischio di dover uccidere qualcuno per non morire.

Resistenza e Liberazione: Auschwitz fu liberata dall’Armata Rossa… Oggi è ancora “lecito” ricordarlo? Oppure una certa “russofobia” lo impedisce (si veda, ad esempio, il corso su Dostoevskij cancellato a Milano)? Anche dopo la guerra in Ucraina (e la guerra in Donbass, iniziata in realtà nel 2014)?

Più che la russofobia, nel caso della liberazione di Auschwitz è l’anticomunismo a rendere sconveniente questa memoria. Gli equilibri mondiali sorti dagli anni ’90, dopo il crollo dell’URSS, hanno implicitamente cancellato la possibilità di descrivere gli atti compiuti dalla potenza sovietica come positivi. Io respingo categoricamente questo anticomunismo imperante, questa volontà di ridurre a caricatura una delle idee più luminose che abbiano attraversato la nostra storia. È lo stalinismo, che del comunismo è la peggior degenerazione, ad aver prodotto gli orrori che conosciamo. L’idea di un sistema dove il libero sviluppo di ciascuno deve corrispondere al libero sviluppo di tutti, e non dove qualcuno migliora le proprie condizioni di vita a danno di altri tramite sfruttamento, sarebbe forse l’unico antidoto ai problemi che ancora oggi affamano un mondo che non è mai stato così ricco di risorse e così pieno di povertà. Il fascismo prima, e il nazismo poi, nascono proprio in chiave anticomunista: i ricchi pagano delle milizie autocostituite per stroncare i comunisti, che sull’onda della rivoluzione bolscevica stanno facendo la voce grossa in tutta Europa; e siccome la cosa funziona, i ricchi decidono di dare a questi picchiatori anche il potere politico, e di sostenerli economicamente nella sua conquista. Se in Italia abbiamo fatto poco e male i conti con il fascismo, non li abbiamo fatti per nulla con quella borghesia che ne aveva costruito l’ascesa. 

​Il crollo dell’Unione Sovietica ha portato a galla gli orrori dei regimi dittatoriali che, usurpando il simbolo della falce e martello, hanno martoriato per decenni l’Europa dell’est. Quello che accade in Ucraina, tragico come tutte le guerre, ha lontane radici che precedono già lo scioglimento dell’URSS, anche se la sua origine più evidente è quella della svolta ivi avvenuta nel 2014, in cui il movimento di piazza Euromaidan ha preso il potere, instaurando un regime filoeuropeista e fortemente antirusso, al punto da perseguire le minoranze russofone presenti nella regione del Donbass. Il progressivo avvicinamento dell’Ucraina alla NATO, e i continui bombardamenti da Kiev su quella regione, hanno spinto il “fratello maggiore” russo a intervenire in grandi forze, con un’operazione su vasta scala dalle terribili conseguenze sulla popolazione civile. Pensare però che l’intera cultura russa (a partire da Dostoevskij!) debba essere demonizzata per le scelte militari di un presidente è un’idiozia che non meriterebbe nemmeno un commento, se non fosse che, dopo l’attacco di Putin del 2022, quest’idiozia in Europa ha guidato scelte culturali anche importanti.

Le ingerenze del presente nel passato, così come “la libertà di opinione” sfociano nel negazionismo? 

Leggere il presente con le categorie del passato, o viceversa il passato con le categorie del presente, sono azioni che, benché inevitabili, vanno condotte con la massima prudenza e con la massima coscienza dei loro stessi limiti e rischi, perché passato e presente sono due piani che nella realtà non si intersecano mai, se non nell’attività intellettuale che siamo l’unica specie animale a svolgere. Personalmente, credo che un’opinione sia libera solo quando è basata su di una solida conoscenza, altrimenti è per forza schiava di una versione che ci viene tramandata e che non possiamo che subire.

Come combattere quel revisionismo storico che, alla luce di una lettura anacronistica del presente, porta a negare il passato, ovvero al negazionismo?

Non so se sia possibile sconfiggerlo. Alla fine, chi vorrà credere a una versione dei fatti solo perché congeniale alle sue convinzioni, continuerà a farlo. Ciononostante, è un dovere controbattere coi fatti a chi propone idee campate per aria – o a chi, scegliendo di narrare episodi isolati, cerca di dare un quadro generale degli eventi che non corrisponde al vero. Per esempio: c’è pieno di libri che raccontano di buone azioni compiute da fascisti e di crimini compiuti da partigiani. Sono libri diabolici, nel senso più ampio del termine, libri che mentono dicendo il vero. Perché ognuna delle cose narrate potrebbe anche essere reale, ma il quadro che ne emerge tessendole insieme è falso: ignora il contesto storico, del quale conosciamo tantissimo grazie a un’enorme mole di documenti e testimonianze. E ignora anche l’idea: il mondo di sopraffazione e sfruttamento che voleva costruire il fascismo a beneficio di pochi era ben diverso da quello di uomini liberi e uguali in cui volevano vivere i partigiani. 

Alcune tue canzoni sono una reinterpretazione di precedenti. Ad esempio la struggente Pietà l’è morta” di Nuto Revelli (è morto un partigiano per far la guerra / la meglio gioventù la va sottoterra”) parla della lotta di classe, ai tempi della dittatura fascista. Come scegli quali brani reinterpretare?

Pietà l’è morta più che di lotta di classe è espressione di quella parte di partigiani che intendeva la lotta non come il prodromo di una rivoluzione futura, ma come una guerra di liberazione dalla dominazione straniera. Nuto Revelli non era comunista, era di Giustizia e Libertà, le brigate legate al Partito d’Azione; lui era stato un alpino, e in lui lo spirito patriottico era forte, insieme però a un’etica irreprensibile, che gli fece capire che quella stessa etica, a chi l’aveva mandato a combattere in Russia, mancava completamente: al di là dei proclami pseudopatriottici, il regime non aveva esitato a mandare i suoi tanto decantati soldati a morire nel freddo per avere la sua “parte di bottino”, come scrisse senza vergogna lo stesso Galeazzo Ciano, il genero di Mussolini, suo ministro degli esteri. Nella scelta dei brani, a guidarmi sono quelli che mi emozionano di più, per la loro forma o per le storie che vi si celano dietro. 

Pietà l’è morta l’ho scoperta ormai più di vent’anni fa grazie a Pasolini, che nel suo film Salò, o le 120 giornate di Sodoma inserisce Sul ponte di Perati, l’originario canto alpino che Revelli rimaneggiò per trasformarlo in Pietà l’è morta. Quel verso, “la meglio gioventù la va sottoterra”, lo trovo straziante, una delle cose più tragiche mai cantate. E non l’ha scritta un poeta, ma nasce da un anonimo contesto popolare. Un poeta, quale Pasolini era, se n’è impadronito, citandolo anche nel titolo di una delle sue raccolte più note, La meglio gioventù.

La musica, per te, ha anche un valore fortemente pedagogico: infatti vieni invitato ad esibirti a eventi didattici e commemorativi (il Giorno della Memoria, il 25 aprile…). Come si può, oggi, a parer tuo, tramandare soprattutto ai giovanissimi, i valori che magari essi danno per scontati, come quelli di libertà di pensiero, giustizia e eguaglianza? 

Non so se sia davvero possibile. È inevitabile che, con il passare del tempo, la memoria vada affievolendosi. Abbiamo enti preposti a proteggerla e tramandarla – e di uno di questi, che è l’ANPI, io sono un convinto attivista. Ma quello che noi possiamo fare è arginare i danni che il tempo inevitabilmente produce. La Resistenza è stata una delle attività umane più luminose del ‘900, quella che, nella bassa macelleria della guerra, fa pensare che tutto sommato l’umanità non sia tutta da buttare. Ma le idee che hanno guidato i ragazzi di allora ormai non sono più emozionanti per quelli di oggi, forse come le idee che spinsero i garibaldini a unirsi a Garibaldi non erano più emozionanti per me quando studiavo il Risorgimento. In questo, la musica ci offre però un grande vantaggio: le canzoni nascono per emozionare… certo, magari anche per far riflettere, ma se non riescono a emozionare è difficile che poi spingano a riflettere! E le emozioni che ci guidano come esseri umani, nel corso dei secoli, non sono cambiate di molto. E se nel momento in cui canti riesci a fare tua quell’emozione, è possibile che chi ti ascolta ne sia coinvolto. E se chi ti ascolta ne è coinvolto, hai tramandato la memoria di un sentimento legato a un fatto pubblico. Ricordo ancora quando, in una classe in cui insegnavo storia, portai la chitarra e, parlando della prima guerra mondiale, intonai Gorizia. Alla fine della canzone, questi ragazzi, per cui il linguaggio musicale e anche verbale di quel brano era quanto di più distante ci fosse da ciò che sono soliti ascoltare, alla fine della canzone avevano le lacrime agli occhi. Cantare per loro può essere fonte di grande soddisfazione per chi, come me, lavora sull’intreccio di musica e memoria.  

C’è il rischio di “dimenticare”?

Sulla scorta di quanto dicevamo poc’anzi, direi che è una certezza. 

C’è il rischio di nuovi fascismi?

Il fascismo è stato un modo violento per difendere i privilegi di una classe sociale. Quando i ricchi vedono i loro privilegi in pericolo, non esitano a usare la violenza, a legalizzarla, a istituzionalizzarla. C’è sempre il rischio di nuovi fascismi, diversi nella forma e nelle idee, uguali nella violenza e nella necessità di limitare le libertà sociali a difesa del benessere di pochi. 

La musica può combattere questi rischi? 

La musica non uccide ma è un’arma molto potente. Il problema magari è che è alla portata di tutti, e può combattere il fascismo come supportarlo – uno dei movimenti neofascisti più noti degli ultimi anni, e oggi per fortuna in crisi, nasceva sulla scia di un gruppo musicale, e sulla sua musica basava alcuni dei suoi rituali di socialità e di iniziazione. Forse, come ogni arma, la musica è efficace solo quando la tua è meglio di quella del nemico.

Dalla Resistenza antifascista come le celebri “Fischia il Vento” e “Bella Ciao”, alle cause indipendentiste. “Scotland The Brave” è un inno alla libertà della Scozia dal Regno Unito? Ti ritieni sostenitore della causa indipendentista scozzese? 

Non ho vicinanza per le cause nazionalistiche, qualsiasi esse siano. Mi reputo un internazionalista, anche se oggi sembriamo rimasti in pochi. Ho cantato tante volte Scotland The Brave nel programma musicale di un ensemble di cui sono cantante, chitarrista e secondo violino, Lo Brando Cortese, che nel programma Heart Rumors mescola brani del folklore angloscozzese e irlandese a brani barocchi che di quel folklore recano qualche traccia. Come inno “ufficioso” della Scozia, questa canzone non poteva mancare.

Nell’Egitto occupato / firmammo un trattato / che a tutti salvasse la vita / ma poi ci fu un suono tremendo / e mio padre, cadendo / si accorse della sua ferita” Di che cosa parla “Scende la notte – Night Comes on”?  

La canzone è di Leonard Cohen, e io ne ho inciso la mia traduzione nel 2022, nel disco Musica straniera – canzoni di Leonard Cohen, che ho pubblicato in contemporanea con il saggio uscito per Mimesis L’arte di Leonard Cohen tra storia, musica ed ebraismo, in cui esploravo la poetica di questo gigante del ‘900 approfondendo in particolare la sua componente culturale ebraica, che nella bibliografia su di lui era stata poco esplorata. Questa canzone sembra ripercorrere alcune delle tappe fondamentali della storia personale di Leonard Cohen: la morte della madre, la nascita dei figli… la strofa che tu citi sembra alludere all’esperienza che il cantautore fece nel 1973, quando si recò in Israele a cantare per i soldati al fronte durante la guerra del Kippur, l’attacco più disastroso che lo stato avesse subito fino a quel momento. Un’esperienza breve, ma che sembra aver segnato Cohen in maniera profonda. Quella notte che scende a cui allude continuamente il ritornello sembra l’unico momento in cui uno spirito inquieto riesce a trovare la sua pace. Ma poi arriva sempre il mattino, e una voce gli dice che è ora di tornare nel mondo, perché dal mondo non si può scappare: si può solo trovare il proprio modo di viverlo.

Di mondi che infiniti stanno ai cieli / di terre che infinite ho attraversato … Campo dei Fiori e pare un dì di festa / fiori di fiamma a cingere le grida / non penso a ciò lascio o a ciò che resta / non chiedo cosa pensi chi m’uccide” – La canzone da te scritta “Giordano Bruno” è un inno alla libertà di pensiero, al personaggio storico del grande filosofo, o piuttosto una protesta contro i crimini dell’Inquisizione?

Protestare contro i crimini dell’Inquisizione nel 2015 (l’anno in cui uscì questo brano) non avrebbe avuto un gran senso, proprio perché, come dicevamo, processare il passato con le leggi del presente non ci porta molto lontano. Quello che resta eterno nella parabola di vita di Giordano Bruno è certamente la sua difesa spasmodica ed esiziale della libertà di pensare e dire ciò che era la sua idea, ossia che la Terra in cui viviamo non fosse che uno degli infiniti mondi che esistono nell’immensità dell’universo, e non che fosse stata fatta apposta per l’uomo e posta al centro della Creazione. La cosa straordinaria è che lui lo comprese per intuizione, qualche decennio prima che il metodo scientifico venisse elaborato. 

​Giordano Bruno è diventato un simbolo, e nei secoli ha toccato gli animi di molti, dai liberali agli anarchici, che si sono affezionati alla sua figura e l’hanno fatta propria, risignificandola in funzione di quelle che erano le loro lotte, fossero anticlericali o contro il potere in senso ampio. Per me, è la figura di un pensatore senza limiti che ha sacrificato la sua vita perché ogni uomo fosse libero di manifestare il proprio pensiero.  

Eppure nei tuoi testi non c’è mai un grido di condanna, semmai un invito profondo, quasi lancinante, a fare riflettere, vero? 

Non lo so. Può darsi. Forse perché, anche se ho idee molto chiare e anche estreme, non accetto dogmatismi di nessun tipo. Di condanne ne avrei tante da elargire, ma in effetti non ho lo spirito del giudice, e meno che mai quello dell’inquisitore… ho scelto l’abito del giullare, che, più che mettere la gogna a qualcuno, di solito rischia di trovarsela al collo lui.

Un muto monito di vergogna a chi non ha colpe da dare ancora / tra gli operai che andavano in ferie, la luce abbagliante dell’esplosivo / corpi straziati dalle macerie, c’è chi rimane sepolto vivo / c’è chi scompare e non lascia traccia / le braccia portate lontano dai treni / c’è un assassino ma è senza faccia, c’è un assassino ma senza freni”

Relatore

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