di Tito Tettamanti

Io non li guadagnerò neppure in una vita! …. è la spontanea reazione parlando degli emolumenti milionari di certi manager.
Reazione emotivamente comprensibile ma errata, perché la problematica è affrontata in modo incompleto.
Cominciamo con il ricordare che nel dopoguerra in Svizzera dall’epoca delle ditte condotte dalle famiglie, siamo passati all’opera degli “Statthalter”, fedeli gestori ma raramente “innovatori”. Questa incapacità di innovazione e scarsa abilità manageriale sono costate all’industria svizzera miliardi. Le Bührle, Sulzer, Rieter ed altre, le più importanti dell’epoca, sono o crollate o hanno dovuto ridimensionarsi perdendo miliardi e posizioni sul mercato.
Oltre a ciò in questi ultimi decenni molte attività in diversi settori si sono sviluppate e complicate in modo strabiliante imponendo diverse e più impegnative capacità gestionali, e le cifre d’affari delle grosse multinazionali sono aumentate in modo esponenziale.
L’impegno manageriale si è dovuto adeguare allo sviluppo eccezionale delle dimensioni delle aziende. Oltre 93 miliardi di franchi è la cifra d’affari odierna della Nestlé, 58 miliardi quella della Roche, 32 miliardi per l’ABB. Fanno però pallida figura nei confronti dei colossi mondiali quali Amazon con una cifra d’affari annua di 575 miliardi di dollari, Apple (383 miliardi) e Microsoft (212 miliardi).
Viviamo una realtà mondiale nella quale esigenze dei consumatori, rivoluzioni nell’offerta, progressi tecnologici vedono il quadro economico in continua trasformazione. Pure i sovvertimenti del panorama geopolitico comportano l’esame continuo dei rischi non solo commerciali ma politici.
Quale importante multinazionale non ha preparato le possibili strategie in caso di conflitti (oggi in atto), riflesso sul come rimpatriare certi approvvigionamenti tenuto conto della minor sicurezza dei tempi di trasporto. Il “Just in time” è un ricordo. Senza dimenticare l’ansia di mercati e gusti che mutano in modo frenetico. Vi sono infine adeguamenti imposti dagli interventi e sempre nuovi regolamenti statali o di autorità internazionali.
Se il mare è grosso, addirittura in tempesta, è l’abilità del capitano della nave che assicura l’approdo. Lo scorso secolo la General Electric era il più importante conglomerato industriale al mondo guidato dal mitico Jack Welch. I successori non sono stati capaci di gestirlo adeguatamente ed oggi la società ha perso (e gli azionisti pure) miliardi, dismesso molte attività ed è una media azienda.
Per venire ad un esempio svizzero, l’ABB agli inizi del 2000 ha avuto diversi problemi, nel 2002 ha realizzato una perdita. Ha dovuto riposizionarsi in un mondo che stava cambiando. Ha assunto in questi ultimi anni quale manager Björn Rosengren, la società è stata ristrutturata con successo, il valore in borsa delle singole azioni è passato da 18 franchi nel 2015 a 47 franchi oggi. Numerosi gli esempi del genere con manager di successo.
Le cifre delle remunerazioni manageriali non sono sempre ammontari di sicuro incasso ma ipotesi di partecipazione agli utili se certi risultati vengono raggiunti. I ceo oggigiorno non durano una vita professionale ma spesso pochi anni, una aleatorietà che si riflette nella rimunerazione.
In un simile quadro è errato considerare questi personaggi solo quali alti dirigenti e collaboratori. In effetti sono dei soci d’opera, una figura esistente nel passato ed in qualche legislazione. I risultati raggiunti dalle aziende da loro dirette sono il frutto dell’unione da un lato tra i loro eccezionali – bisogna riconoscerlo – talenti che contribuiscono al successo e dall’altro del capitale, strutture, storia, marchi messi a disposizione dalla società. Sono i Federer, Verstappen, Messi che operano nel campo dell’economia.
La nostra reazione verso i redditi stratosferici dei campioni nello sport è addirittura di ammirazione, forse perché in quei campi è più facile giudicare la prestazione ed i campioni fanno cose che noi non saremmo mai in grado di fare, mentre riteniamo che vendere caffè o acqua minerale come la Nestlé non dev’essere poi così difficile. Li vediamo all’opera regolarmente sui campi sportivi e alla televisione.
Al contrario l’impegno quotidiano dei grandi manager non ci viene illustrato, ma anche se fosse è talmente complicato che non lo capiremmo per poterlo giustamente apprezzare.
I talenti contribuiscono alla formazione della ricchezza nel mondo, indispensabile per poter effettuare la redistribuzione sociale.
Il rimprovero molto pesante che può venir fatto alla categoria dei soci d’opera (e alle loro società) è quello di tollerare tra loro inetti ma talvolta pure avidi approfittatori e imbroglioni. Il fatto di essere un manager non è ancora la prova del talento e innumeri (vedi Credit Suisse) sono le “culpa in eligendo e vigilando”. Il socio d’opera deve non solo accettare il rischio e partecipare all’insuccesso economico ma in taluni casi, accertate le responsabilità di mala gestione, venir chiamato a versare indennizzi e nei casi estremi vedere il proprio agire indagato ed eventualmente sanzionato dalle autorità penali.
Dobbiamo essere grati ai talenti dei “soci d’opera” che contribuiscono al benessere generale ma la loro parte di utile deve corrispondere all’effettivo successo e devono rispondere per le conseguenze del loro agire.
Solo così la società potrà accettarli.

Pubblicato nel CdT e ripubblicato con il permesso dell’Autore e della testata