di Tito Tettamanti
Uno dei temi che preoccupano economisti, politici, media e parte dell’opinione pubblica è quello dell’indebitamento.
Il debito mondiale è di 307.000 miliardi di dollari: comprensibile il nostro stupore dinanzi ad una cifra che abbiamo difficoltà ad immaginare ma che non permette di emettere un giudizio fondato. Per avere un valido parametro si deve comparare l’ammontare del debito con il potenziale economico sottostante, vale a dire con la produttività delle singole nazioni convenzionalmente espressa dal PIL (prodotto interno lordo).
Mi sono occupato di investimenti, fusioni, disinvestimenti in società quotate. Evitando di ricorrere ad espressioni tecniche preciso che una delle preoccupazioni nell’analisi di un investimento è di controllare la capacità di produrre flussi di cassa e utili che permettano agevolmente di pagare gli interessi passivi, prima ancora di giudicare la struttura dell’indebitamento stesso.
Tanto più il rapporto è soddisfacente (elevato), tanto maggiore è il cash prodotto dalla società, tanto meno preoccupano (in linea generica) i debiti.
Il giudizio vale per l’economia privata ma è applicabile pure agli Stati.
L’esame di questo rapporto (debito – potenzialità produttiva) ci dice, prendendo qualche esempio, che il debito degli USA è pari al 129% del PIL, della Francia al 112%, dell’Italia al 137%, della Spagna al 112%. Percentuali molto elevate e che limitano la flessibilità delle politiche. La Svizzera sta molto meglio (41%). Il debito del Canton Ticino si situa a 2,7 miliardi e la capacità di autofinanziamento al 79.7% (vedi studio Ammadeo e Vorpe). La situazione è fonte di preoccupazione e tema di accesi dibattiti nel parlamento cantonale.
Vi è chi sostiene che i debiti non contano, non condizionano perché vi è la MMT (Modern Monetary Theory) che sostiene che gli Stati non potendo fallire (?) possono stampare tanti soldi quanti vogliono. Con il rischio di finire a vivere tutti scontenti nell’uguale miseria. L’impero comunista su questa forma di eguaglianza docet.
Non sono però i debiti, per quanto astronomici, che devono angosciarci, e ciò, detto da me, sorprenderà molti lettori e stupirà i sostenitori delle politiche del deficit.
Determinante è la sostenibilità. Si dovrà tener conto pure dell’utilizzo del debito, se destinato ad investimenti che creano ricchezza o a forme di ridistribuzione che non fanno che spostare i consumi senza contribuire alle necessità del futuro rimborso.
Il budget degli USA è previsto chiuderà con un deficit del 7%, quello della Francia nel 2023 ha chiuso con un ammanco del 5.5%. La musica si ripete per molte altre nazioni e ciò non può che preoccupare.
Se poi per il pagamento degli interessi maturati dal debito pubblico si deve addirittura ricorrere all’accensione di nuovi debiti deve suonare il campanello d’allarme.
Doveroso pertanto concentrarsi nell’esame dell’“avanzo primario” che corrisponde alla differenza tra le entrate (imposte, tasse ed altro) e la spesa pubblica prima del costo (interessi) del debito. È l’insoddisfacente produttività delle attività economiche che può obbligare, non volendo o potendo ridurre le spese, ad un ulteriore ricorso al debito.
Qual è il rimedio allo squilibrio al quale assistiamo? Sicuramente non la continuazione di politiche di pesanti interventi statali oggi finanziati con sempre nuovi debiti scaricati sulle future generazioni. Lo Stato non produce ricchezza, semmai il suo compito è di distribuzione ed è duplice, ne usa una parte per le sue funzioni (giustizia, polizia, educazione, ecc.) l’altra per la socialità (sanità, assistenza ai disoccupati e agli anziani, ecc.). Si finanzia tramite imposte e tasse, ma tanto maggiori saranno i prelevamenti fiscali e i costi della burocrazia, maggiore sarà l’incidenza negativa sulla redditività delle attività produttive.
Le imposte sono indispensabili sia per il finanziamento del funzionamento dello Stato quanto per l’equilibro della o nella società ma certamente il loro aumento – indipendentemente da considerazioni ideologiche – non costituisce un incentivo all’incremento della produzione della ricchezza.
La soluzione dovrebbe consistere nel liberare da pastoie e ostacoli burocratici le attività produttive facilitando la formazione di ricchezza, creando condizioni fiscali che non appesantiscano e demotivino chi opera, incoraggiare e facilitare iniziative imprenditoriali. Per il Ticino, ad esempio, da tempo ci si chiede come incentivare il rientro dei cervelli espatriati.
Non è da escludere, anzi è concepibile una coraggiosa politica del debito al fine di facilitare la creazione di attività che produrranno i futuri redditi. Evitando però di imitare l’Argentina che a metà del secolo scorso era tra le nazioni più ricche del mondo. Il populismo peronista (i soldi ci sono e l’indebitamento è facile) ha portato il Paese al fallimento con costi sociali pesantissimi.
Qualche medicina brusca, che esige coraggio e il superamento di pregiudizi, sarà indispensabile per le nostre singole economie se si vuole evitare l’impoverimento generale. Non vi è alternativa: per assicurare nel tempo il finanziamento della società e della socialità sono indispensabili produzione e produttori di ricchezza.