Un articolo sul romanzo che ha ispirato più di quattro trasposizioni cinematografiche. Non vuole essere un riassunto, anche se svela lo svolgersi del romanzo, quanto piuttosto un’analisi sui personaggi prototipi dell’umanità. Che possa invogliare alla lettura coloro che non l’hanno ancora letto o fare emergere un significato forse differente per coloro che già l’hanno letto. Sullo sfondo della Santa Madre Russia e dell’epocale conflitto napoleonico del secolo XIX.
Ad Austerliz, nel 1806, cade ferito con gloria, salvando la bandiera, la gloria simbolica della Russia. Voilà une belle mort! Dice Napoleone, credendolo erroneamente morto e poi, salvandolo. Andrej torna dalla guerra, dopo esser stato creduto disperso, e torna in famiglia nel momento in cui la moglie Liza partorisce, e mentre l’uno ritorna alla vita, l’altra, per donare vita, passa alla morte. A Borodinò, nel 1812, sei anni dopo, il principe trova la morte e non gloriosamente, ma per l’esplosione di una granata lanciata da un ignoto nemico francese che gli lacera le interiora. E di nuovo torna il contrasto tra lo spirito, che si avvia verso la conversione, e la carne, che volge, di giorno in giorno, verso la putrefazione.
Ad Austerliz vede un cielo, alto, sublime.
A Borodinò incontra la fede.
Nei sei anni che intercorrono tra queste due battaglie, perde la moglie (=la mondanità), resta oppresso dal rimorso (=la prigionia dell’anima) si innamora di nuovo (=l’affetto spirituale, cui crede di tendere), resta nuovamente deluso (=la morte dello spirito). Solo con la morte fisica ottiene la salvezza dell’anima, comprende di amare ancora, d’un amore puro e sublime, Natasha, la quale, da lui perdonata, lo accudisce fino alla fine, illudendosi di sposarlo, una volta guarito; il destino ha infatti voluto che Natasha abbia ritrovato il principe Bolkonskij in una notte di ottobre, quando il freddo annuncia la sua prossima venuta e di lontano, Mosca, la Santa Mosca, incendia la notte e la storia, segnando la fine di un’epoca.
Maria, sorella di Andrej, mistica tanto quanto egli era stato razionale, che tanto anela ad una vita di abnegazione, giovane che reprime tutti i suoi istinti di gioventù dono, quasi volendosi imporre una vita ascetica e di preghiera, dopo la morte del fratello, rinuncia alla monacazione e a farsi pellegrina, comprendendo che Dio è in lei, su quella stessa sua terra, tra quelle sofferenti anime che lei ha il compito di guidare e di alleviare loro i dolori; compito suo è anche quello di generare nuova vita. Ed il suo processo pare inverso a quello del fratello, da delusione a speranza, da grigia vita terrena a luminosa vita eterna. Ella, dall’abnegazione passa al matrimonio, al quale dovrà attendere per sette anni, attesa che sopporterà grazie alla fede precedentemente maturata, al quale alla fine giungerà e sarà resa madre. Sarà supporto per il marito, quale moglie remissiva ma di straordinaria virtù morale, ed egli anche sarà per lei un supporto, sociale. Nicolaj Rostov, fratello di Natasha, non poteva che essere per lei l’unico uomo, il più perfetto. Maria, che era stata delusa dal fidanzamento non conclusosi con il seduttore Anatolio, suo opposto, (lo stesso che avrebbe rovinato l’amore di Natasha e Andrej) trova l’amore in Nicolaj quando ormai tutto sembra perduto. Eppure, sposandolo, priverà della felicità un’altra giovane donna, Sonja, precedentemente adottata dalla famiglia di Natasha (e di lei cugina), che vivrà per sempre all’ombra di questa. Amiche legatissime, ella è la sola a salvare la cugina dalle insidie di Anatolio, rivelando tutto ad una zia e sventando il rapimento. Eppure la bontà e la perfezione le impediscono di essere amata. Nicolaj Rostov la inganna due volte, la prima giurandole, non ancora adolescenti, che la sposerà, la seconda quando, ventenni, le rinnova la promessa su un prato innevato, sotto un cielo sfavillante di stelle. Ma come anche la neve di Russia non dura in eterno, così la fugacità di quell’amor di gioventù eppur ancora così puerile, non avrà futuro. Nicolaj sposa Maria Bolkonskaja perché è ricca, virtuosa, remissiva. Sonja, che singhiozzando istericamente gli scrive una lettera con la quale gli rende la libertà, resta come un fiore sterile, così come cinicamente osserverà Natasha. Poiché a chi ha, sarà tolto. Così Natasha riporta (erroneamente?) una frase del Vangelo. E l’ultimo ricordo di Sonja nel romanzo, da ragazzina simile a una gattina che rifiuta la proposta di matrimonio del maturo e mondano Dolochov, da fanciulla che continua ad amare speranzosamente Nicolaj, da giovane donna che, per amor di costui si sacrifica, restando a servire lui, la moglie di questi e quei bambini (che avrebbero potuto esser suoi), l’ultimo ricordo, dunque, è quello di una donna che, mestamente, serve il thè.
Elena Bezuchova incarnazione della bellezza dissoluta muore, muore suicida avvelenatasi per la sofferenza apportatale dall’amore. Lei che vuole risposarsi, pur sapendo Pierre ancora in vita, e non sa chi dei due pretendenti scegliere, lei che ha rischiato d’essere uccisa da uno scatto di collera di Pierre, (il quale, in preda alla gelosia, aveva quasi ucciso in un duello d’onore Dolochov (lo stesso che era stato pretendente di Sonja) poiché si diceva, essere stato l’amante di Elena), lei dunque, stanca forse dell’opprimente teatrale mondanità, si avvelena. Non si indaga sull’interpretazione del suo gesto. Forse perché d’un personaggio vuoto, fino alla fine. La sua morte ha valore di libertà, non solo per lei stessa, ma anche per il marito.
(C’è chi ha ipotizzato ch’ella muoia per essersi procurata un aborto, frutto dell’adulterio con uno dei suoi due amanti. Un personaggio vuoto, che non porta vita, dunque. Che Tolstoj abbia poi indagato a fondo questo personaggio, discolpandolo e donandole vita (col figlio frutto dell’adulterio, questa volta nato), nel successivo Anna Karenina è un’ipotesi non da escludere.)
Pierre viene fatto prigioniero dai francesi, durante la prigionia conosce Platov Karacheev, un vecchio contadino che gli insegna, con il suo amore per la bestiola che lo accompagna, con il suo accogliere con semplicità tutto quel che da la vita, la felicità, dalle poche patate cotte della prigionia, a un paio di scarpe mal fatte, e mentre fuori imperversa il gelo, gli insegna l’amore per la vita. Poi muore, vigliaccamente fucilato dalle guardie, durante la ritirata francese. Ma il suo insegnamento non sarà vano. Pierre, liberato dai cosacchi, rinasce a nuova vita. Consola Maria e Natasha per la morte del suo amico Andrej, morte per il quale è sì sofferente ma quasi in modo maldestro. Ora è libero, anche dell’amico. E quella Natasha, così temprata dal dolore e resa più umana, più donna, può esser sua.
Vittorioso è chi si sa adattare alla vita, chi sa navigare nel vorticoso peregrinar del destino, chi sa riconoscere che dopo il dolore, c’è sempre la vita. Vittorioso è chi sa amare la vita. Qual ch’essa sia, fino all’estremo, manzonianamente parlando.
Sconfitto è chi anela a quel qualcosa che gli sarà impossibile avere. In questo, il figlioletto di Andrej, non è diverso dal padre.
Vera Rostov, la primogenita di casa Rostov, si sposa all’inizio con il generale tedesco Berg, ed esce di scena, felice per essersi liberata da quella famiglia che, pur amando non ha mai considerato sua (nelle trasposozioni cinematografiche il personaggio di Vera non appare mai).
Natasha trova la felicità solo adattandosi al mondo. Imponendosi di dimenticare l’amatissimo Andrej, dirà addio ai sogni fanciulleschi per sposare Pierre e divenire, dopo sette anni, una carnosa madre di quattro figli, gelosa, simpatica e terrena, che dell’esile e sognante fanciulla che voleva abbracciare le stelle, non ha più nulla, che non il lontano ricordo.
Sette anni dopo dunque, Pierre ha finalmente trovato la felicità coniugale che Elena pareva avergli negato.
Nicolaj, come un cognato che si rispetti, litiga e discute con Pierre, il quale è sostenuto dalla moglie per il solo fatto d’esser suo marito.
Il vecchio conte Rostov è morto poco dopo la morte di Andrej, per il cuore spezzato dalla morte in guerra del figlio minore, l’idealista adolescente Petja. La vecchia contessa resta tra i giovani coniugi suoi figli, come un’anziana stanca ma soddisfatta della vita fondata, eppur triste e desiderosa di passare a quell’altra vita, poiché di questa vita, ormai, più nulla le rimane, se non la vita organica. Ed i suoi sguardi sono un memento a tutti gli stanti, destinati a divenire, nella vecchiezza, come lei.
L’astro nascente di Napoleone è durato quanto una stella cadente. Tolstoj non risparmia, alla fine, sferzanti critiche terribilmente veritiere all’Imperatore, pedina del fato come tanti, come l’imperatore Aleksandre e i generali Kutosov e Vronstov. La guerra travolge la storia o forse è la storia a voler la guerra. In essa s’infrangono i sogni, le speranze, gli amori. Ma da essa rinascono nuovi, imprevedibili intrecci.
Petja, idealista fratello di Natasha, si slancia con fervore al suo primo combattimento, dicendo addio alla pace e alla musica, da lui tanto amata; cade a terra con il cranio trapassato da una pallottola. La sua morte da morte al padre e vita a Natasha. Poiché la sorella, soffrendo doppiamente e aiutando la madre a uscire da quel dolore, esce a sua volta dal dolore per la morte del principe Andrea, ritornando a vivere.
Guerra e Pace insegna, oltre a narrare la più grande guerra del secolo decimottavo, a riflettere sulla fugacità degli eventi, fugacità che appartiene anche ai più catastrofici.
Il genio di Tolstoj rende dunque un trattato di storia, intercalando pagine liriche alternate a lunghe indagini militari, a loro volta contrapposte a eloquenti dissertazioni sulla filosofia della storia, con la vita di più personaggi, ispirati a persone realmente esistite, che durante quella Guerra, soffrirono, amarono, sperarono, nella Pace. In una pace intima, oltre che pubblica.
Argomento della storia è la vita dei popoli e dell’umanità, conclude Tolstoj, lasciando trapelare, nelle ultime pagine la domanda senza risposta, del libero arbitrio dell’uomo, protagonista o pedina del destino, contrapposto al fatalismo della storia, ma, forse più semplicemente, più che contrapposto, sottopostovi e da esso compendiato.
L’Autore giunge, dopo aver eloquentemente indagato sugli errori di Napoleone, dopo aver criticato senza pietà l’ambizione dell’imperatore dei francesi, quasi a discolparlo o, meglio, a renderlo partecipe di una complessa, e forse incomprensibile, trama del destino.
“Il cuore del re è nelle mani di Dio. “
Il re è lo schiavo della storia.
La storia, la vita incosciente e collettiva, la vita degli sciami umani approfitta per sé, a ogni istante, della vita dei re come di un’arma per raggiungere i propri fini.
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"Il genio di Tolstoj ...". Per me il più gr