di Vittorio Volpi
Il Giappone è per molti il paese dei ciliegi, gheishe e suicidi. È lo stereotipo diffuso secondo il quale per un nonnulla si commette il suicidio. Diversi i motivi, per onore, amore, affari, tutto giustificherebbe il togliersi la vita.
Ma, l’abbiamo premesso, è uno stereotipo che si basa sulla storia lontana di un paese geograficamente gettato nell’oceano ai confini dell’Estremo Oriente con una storia di isolamento millenaria.
Nella realtà dei nostri giorni le cose sono diverse. Secondo le statistiche dell’ONU il tasso “suicidi-popolazione” indicherebbe che il paese del Sol Levante risulterebbe essere il 13° al mondo preceduto dalla Russia (secondo posto) dalla Corea del Sud (quarto), ma poi dal Belgio e dall’Ungheria. Quindi possiamo dire che i casi di suicidio sono alti, ma sono ormai non lontani da quelli che abbiamo dalle nostre parti.
Quello che è diverso fra loro e noi è la percezione, il concetto di suicidio e possiamo dire che siamo su pianeti diversi nel concepire la vita e la morte.
Per caso, all’inizio della mia vita in Giappone, avevo una insegnante di giapponese che passo passo mi ha aiutato a crescere non solo nella conversazione, ma anche nel capire ciò che è dietro il linguaggio: la cultura.
Ora, il primo libro che inseme a lei ho letto, casca a fagiolo con il nostro tema del suicidio. Si tratta di un libro molto interessante “Nihon Jisatsu” (Il suicidio in Giappone) scritto da un antropologo scozzese, Stuart Pickens), il quale sosteneva che in Giappone (sua cultura e lingua) il concetto di suicidio non aveva riscontri con noi di matrice giudaico-cristiana.
Esistono nelle nostre culture 6-7 modi di descrivere il suicidio, le espressioni sono ad esempio “si è suicidato, si è impiccato”. In giapponese invece esistono più di 60 espressioni per descrivere l’atto. Mi colpiva in particolare quello più tragico-romantico “Muri Shinju” (un amore impossibile con la coppia che si suicida).
Mi impressionava ed ho vissuto da vicino un caso drammatico, cioè togliersi la vita per salvare l’onore della famiglia o dell’azienda dove lavori (che è una famiglia allargata…).
Alla radice, nell’analizzare, c’è un fatto culturale molto diverso. Nel mio mondo, quello di casa mia, il suicidio non è accettabile perché togliersi la vita è un atto di ribellione contro Dio creatore, l’unico che dona e toglie la vita.
Nella cultura giapponese invece può diventare un atto catartico per superare un errore, una cattiva azione, una colpa passata con lo scopo di togliere, lavare alla famiglia l’onta per la quale moglie e figli, o azienda, dovrebbero pagarne il prezzo tutta la vita.
Il suicidio può diventare quindi un atto di “riscatto”, liberatorio ed è quindi giudicato positivamente dalla società. “Malgrado il suicidio era una brava persona, un uomo d’onore. Ha pagato un prezzo per i suoi…”.
Fatte le premesse veniamo al dunque sulla pandemia.
Appare oggi sul Financial Times il seguente articolo: “Il Giappone soffre un aumento di suicidi femminili durante la pandemia”.
In sostanza, in cifre, mentre i suicidi maschili sono rimasti stazionari nel 2020, quelli femminili hanno avuto un’impennata del 15%, da 6001 a quasi 7000. Il quotidiano britannico tenta, sebbene difficile, un’analisi del perché soprattutto la curva del fenomeno si accentui molto nelle donne di età fra i 35-42. Tenendo conto anche che i suicidi femminili rappresentano un terzo del totale dei suicidi.
Una prima ragione è che le donne lavorano perlopiù in ospedali, negozi, servizi dove i contatti con gli altri sono molti più elevati portando a maggiore stress. Poi, i licenziamenti sono più facili perché molte donne lavorano part-time, si fa presto a lasciarle a casa.
In secondo luogo, il governo giapponese si è focalizzato maggiormente nell’assistere le imprese perdendo di vista il dipendente, aiuto in questo caso solo indiretto.
Viene poi la pressione di lavorare a casa quando le scuole fanno vacanze e lockdown. Un incubo per le mamme.
Bisogna quindi aggiungere che il ruolo della donna nella società è cambiato. Un buon 30% nella fascia d’età tra 35-42 non è sposata (e non vuole sposarsi) e quindi in caso di licenziamento diventa un dramma.
Ultimo corollario il fenomeno “me too”, il modello emulativo.
Per ogni celebrità che si suicida segue per giorni un’ondata di emulatrici. Così è stato per Hana Kimura (una lottatrice) e per Yuko Takeuchi (attrice).
Insomma, sebbene sia prematuro trarre conclusioni, il Covid-19 ha colpito pesantemente le donne, l’argomento merita una riflessione anche da noi. È la conferma, forse, che c’è da lavorare nella nostra società per un miglior equilibrio sociale.
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