Avete mai pensato di fare un sogno assurdo, che travalica i confini del verosimile ed inserirlo in una biografia? Probabilmente così ha fatto Anne Fontaine, regista di Coco avant Chanel, uscito nel 2009, dove vediamo la protagonista, giovane e squattrinata amante del barone Balsan, che rifiutando di farsi cacciare via dal suo protettore e di andare alla stazione, si traveste da fantino, monta un cavallo e raggiunge il suo anziano amante intento a un picnic nel bosco assieme a pompose dame dell’alta società. Da questo momento in poi, Coco – piccola, magra e scura – inizierà la sua scalata sociale, fatta di aspre critiche e gentili consigli alle alte e piumose attrici del bel mondo e rivoluzionerà la moda. 

Ora: quale gentile signorina – cortigiana o donna onesta che sia – monterebbe un cavallo non suo, coi vestiti stagliuzzati addosso del suo protettore? Non è verosimile, ma la biografia convince lo stesso. Quanto meno per l’invidia che – forse – Coco Chanel prova per le belle donne inghirlandate, esprimendo nientemeno che il proprio “disgusto” per tutti quegli orpelli e proponendo così il proprio gusto che rivoluzionerà un’epoca, fatto di bianco e di nero, di sobrietà e di rigore.   

Sì, perché quella dell’umile sarta divenuta cortigiana – almeno nel film – non è che invidia, non soltanto della più prorompente bellezza delle altre donne ma anche della loro più agiata condizione sociale. E così la signorina Chanel progetta abiti senza corsetti, scarpe senza tacchi: la comodità, certo, travestita da sobrio rigore ed elegante austerità.

Inseritasi nell’arco temporale di passaggio dal pomposo Ottocento al più stringato Novecento, Coco – interpretata magistralmente da Audrey Tatou – diventa così il mito intramontabile che anche attraverso Karl Lagerfeld, strappato, alla fine degli anni Ottanta del Novecento, dalla maison Chloé, per appartenere, infine, a Chanel. Ma questa è un’altra storia.