Tratto da “Giovanissima e immensa” (Milano) di Achille Colombo Clerici
Ed è riallacciandosi a uno dei più tragici eventi della storia d’Italia che Carlo De Benedetti ha raccontato di sé e della sua famiglia: dall’agiata vita borghese all’avventurosa fuga in Svizzera con genitori e fratello attraverso un foro nella rete di confine – disegnata emblematicamente nel diario del fratello Franco – nei pressi di Revello subito prima di un rastrellamento delle SS che portò alla morte di due cugini e alla deportazione degli zii (la zia uccisa, lo zio tornato vivo, ma pazzo) ai primi durissimi tempi in un rifugio a Bellinzona: doccia fredda d’inverno all’aperto e paglia come letto.
Poi Lucerna, due anni in una stanza. «Si viveva in povertà – dice De Benedetti – ma sorprendentemente felici». Con un compito assegnato dal padre ai due figli: tenete un diario perché un giorno diranno che non è vero. A fine guerra il rientro in Italia, il ritorno all’imprenditoria.
E alla Svizzera quando la minaccia delle Brigate Rosse, da cui doveva proteggersi in quanto presidente dell’Unione industriali di Torino e del Piemonte – convinse De Benedetti a mandarvi i tre figli. Oggi tutti, padre compreso, sono cittadini svizzeri. Di sé precisa “svizzero engadinese”, perché lo si diventa con riferimento a una precisa città: nel suo caso Sankt Moritz.
Cosa ha insegnato la Svizzera?
«L’educazione civica e la sobrietà. E la convinzione che se sei forte ce la farai sempre» …
Achille Colombo Clerici
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