Primo piano

ESG | di Tito Tettamanti

ESG è un acronimo. «E» sta per environmental, che tradurrei con la parola ambiente, meglio con cura dell’ambiente. La «S», social; socialità, sensibilità sociale. «G» sta per governance, gestione con attenzione alle esigenze di tutti coloro che direttamente o indirettamente sono interessati e coinvolti dall’atteggiamento delle società nel campo dell’economia. Confesso la mia diffidenza verso acronimi, slogan, propaganda, campagne, specie quando invadono, come nel caso di ESG, il mondo della comunicazione in modo insistente imponendosi all’attenzione, influenzando. Talvolta si tratta di abili forme di pubblicità, ricordiamo l’effetto subliminale, di mode che vogliono catturare qualche effimero atteggiamento della società, talaltra sono l’espressione di sensibilità nuove che corrispondono all’evoluzione della società e dei costumi, infine, e ciò è più pericoloso, possono essere la strada indiretta per l’affermazione di una ideologia. Le persone che in buona fede – anche se un po’ utopisticamente – si impegnano nella difesa dell’ambiente, avvertendoci della nostra distrazione, meritano rispetto e ascolto. È un bene prezioso del quale noi spesso non ci curiamo. Attenzione però a due pericoli: quello del fanatismo che porta a dimenticare l’equilibrio con il quale vanno affrontati tali problemi, e quello di lasciarsi usare da chi approfitta dell’entusiasmo e ingenuità per perseguire propri interessi che con il tema hanno ben poco da spartire. Per ognuna di queste variabili la cartina di tornasole è costituita dai vantaggi economici o meno ben mascherati ottenuti approfittando dei sentimenti e dell’ingenuità di benpensanti. La mia diffidenza aumenta quando, come nel caso di ESG, gli obiettivi sono plurimi unendo aspirazioni diverse, anche se con qualche similitudine, creando confusione. Al proposito lascio la parola alla rivista Economist, ben più competente di me, che giudica negativamente l’accomunare di obiettivi ai fini della coerenza del giudizio e dell’agire. Chiudere una miniera di carbone è senz’altro utile per il clima ma pone problemi sociali per i la- voratori licenziati e per i fornitori. Se le mete alle quali si tende sono plurime minore è la sicurezza di raggiungerle contemporaneamente, anzi l’indirizzo in una direzione potrebbe compromettere quello in un’altra. A proposito di interessi economici non dovrebbe stupire l’entusiasmo e l’aperto sostegno all’ESG di gran parte del mondo della finanza. Uno dei più ferventi ed attivi sostenitori è Larry Fink, che ha costruito un impero nell’ambito della gestione di patrimoni con la Blackrock che amministra un totale di oltre 9.000 miliardi di dollari. Tanto lui quanto altri gestori hanno individuato in ESG un efficiente argomento propagandistico per lanciare nuove forme di investimento. Si calcola che 35 mila miliardi di dollari siano stati raccolti sotto tale egida. Ovviamente gli astuti operatori nel settore dei fondi di investimento hanno immediatamente capito che i fondi ad indirizzo ESG potevano pretendere un sacrificio dagli investitori, alcuni per convinzione, altri per fare bella figura e mettersi a posto la coscienza. Il sacrificio come si desume dalla stampa economica consiste nel fatto che le commissioni in tal caso sarebbero state pressoché raddoppiate. Percentuali modeste ma che moltiplicate per 35 mila miliardi fanno un gran bell’incas- so. Ma le sorprese non si fermano qui, infatti gli investimenti di buona parte dei fondi chiamati «verdi», verdi non lo erano per nulla salvo che per il nome. Notevole lo scandalo che ha comportato anche l’intervento delle autorità. Negli Stati Uniti è poi sorto un altro problema, i gestori di patrimoni, che tra l’altro amministrano importanti capitali di fondi pensionistici, sono tenuti dal mandato ad investire al meglio o ad investire seguendo indirizzi apparentemente ideologici che possono contrastare con le idee e il volere dei clienti? Dinanzi al problema alcune grandi banche e gestori hanno ritirato le loro adesioni a iniziative in favore dell’ESG rendendosi conto del conflitto di interessi. Molte iniziative e movimenti del genere partono purtroppo dalla ormai diffusa convinzione che il mondo dell’economia, delle aziende manifatturiere sia il mondo della disonestà dove ogni arricchimento di conseguenza è illecito e un asfissiante controllo doveroso. Si dimentica quanto la creazione di ricchezza sia indispensabile per lo sviluppo della società, quale fonte per le imposte degli Stati, indispensabile per la copertura degli oneri della socialità. Nell’ottobre dello scorso anno sulla FinanzundWirtschaft gestori di fondi ESG ne magnificavano l’importanza ed il ruolo, il contrario avrebbe stupito, parlavano a favore di una loro fonte di guadagno. Tra questi il «Chief Investment Officer» del Credit Suisse, banca che ha sempre dimostrato zelo nel campo. Mi permetto però di dire a lui, allora uno dei massimi dirigenti della banca, ma anche ai suoi colleghi e a quegli irresponsabili di membri del Consiglio di Amministrazione, che se al Credit Suisse ci si fosse concentrati maggiormente sulla gestione della banca (vero government), gli azionisti e gli obbligazionisti non avrebbe perso miliardi di franchi e impiegati il posto. Per restare in argomento, chiudo anch’io con un acronimo: COPI, che sta per Competenza, Onestà Professionale e Impegno. Musica vecchia, sì, ma di successo.

Relatore

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