Ormai il risultato è definitivo: dopo il primo turno delle elezioni presidenziali in Francia, il presidente uscente Emmanuel Macron e la rivale di estrema destra Marine Le Pen andranno al ballottaggio. Macron ha ottenuto circa i 27.6% delle preferenze dei votanti, seguito da Le Pen con il 23.4% delle preferenze. Al terzo posto invece troviamo l’estrema sinistra con Jean-Luc Mélenchon (21.9%) e l’estrema destra di Éric Zemmour, nettamente al di sotto degli altri tre con il 7.05% delle preferenze.
Il risultato raggiunto da Le Pen non appare strabiliante come si era prospettato dai sondaggi, che la dano in fortissima ascesa. E il divario che la separa da Macron è notevolmente più ampio di quello che ci si potesse aspettare. Il risultato definitivo tuttavia non si saprà che al secondo turno, che si terrà domenica 24 aprile. È improbable tuttavia che Macron ottenga la vittoria schiacciante del 2017, quando aveva battuto l’avversaria 66 a 34%. Dipende tutto da dove andranno a votare gli elettori che nel primo turno non hanno avuto la meglio, ovvero quelli che hanno votato la socialista Hidalgo, la conservatrice Pécresse, il comunista Roussel e la destra di Zemmour e Dupont-Aignan. Macron ha voluto rassicurare tutti: “Voglio dare garanzie a coloro che si sono astenuti o hanno votato alle estreme perché sono in collera davanti alle diseguaglianze che persistono, al disordine ecologico, all’insicurezza e alla difficoltà di vivere degnamente anche quando lavorano duramente”.
L’affluenza al primo turno è stata del 74%, piuttosto bassa se paragonata agli scorsi anni e in assoluto la peggiore dal 2022. Fattore questo, che secondo gli analisti potrebbe favorire Le Pen, cui elettori sono entusiasti ed agguerriti.
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L’impasse politica dell’Esagono (un “centro” e (“en même temps”) due estremi)… è il risultato di una situazione socio-economica (so di usare un termine “inflazionato”) analoga per molte delle seppur diverse democrazie continentali. Vi è un gruppo dirigente profondamente radicato nella “cultura finanziaria planetaria” con la sua “governance” economicamente e culturalmente “liberale” cosiddetta aperta, moderna, cosmopolita che si definisce “di centro” ma che agisce attivamente lacerando le comunità nazionali legate a specifiche logiche (e soprattutto a pesanti problemi) territoriali. Vi è quindi una distanza ormai incolmabile determinata dai ritmi, dai tempi e soprattutto dai valori espressi tra le due realtà socio-economiche: popolazioni stabili da una parte e governance apolide dall’altra. Si tratta di una politica “senza patrie”, promossa a livello mondiale, che i membri sociali isolati in rappresentanza di interessi globali praticano secondo una modalità gestionale basata su un “principio universale”: un modello affermato come “dato di fatto”. Più il potere economico cresce e si globalizza, più si allontana dai valori (e dalle virtù) che un tempo erano la base dell’ideale democratico. Inoltre la cosiddetta governance assegna il termine di “consenso” alla risultante di trattative tra partner con poteri “disuguali” ciò che cancella ogni dissidenza perché essa è a tutti gli effetti irrealizzabile. Non puoi cambiare (en même temps) un contesto consustanziale a un organismo globalizzato (pre)strutturato tentando di inserire una logica tendente a “proteggere” valori territoriali.