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I pericoli della violenza fisica e simbolica

di Tito Tettamanti

La violenza ha partorito la storia. È un’affermazione di Jean-Paul Sartre eccessiva ma non destituita da ogni fondamento. L’evoluzione dell’umanità nel corso dei secoli è sicuramente pesantemente costellata dalla violenza. Violenza di diverso tipo. La più appariscente è quella fisica che va dalle scazzottate giovanili alla tragedia della guerra. Vi è quella bestiale nelle famiglie subita da donne e figli. I minori sono anche oggetto delle attenzioni di luridi personaggi facilitati dalla loro funzione di insegnante, sacerdote, monitore di sport. Violenza doppia, psicologica e fisica.

foto di Annabel P (Pixabay)

Preoccupante l’aumento di tal genere di comportamenti tra adolescenti. Leggiamo di un quindicenne in Italia che massacra e uccide l’amichetta, come di stupri di gruppo di figli di famiglie note. A Vienna quattro giovani afghani drogano, stuprano ripetutamente e poi strangolano una tredicenne. In Francia si legge di unallievo musulmano che, sentendosi offeso nei suoi sentimenti religiosi da un professore, lo decapita. Preoccupa le autorità francesi la delinquenza minorile di figli abbandonati dai genitori, specie nei quartieri a presenza prevalentemente magrebina nei quali la polizia non osa entrare. A Göteborg, seconda città di Svezia, gang di giovani immigrati si confrontano per il controllo del territorio e qualche settimana fa un poliziotto è stato assassinato con premeditazione. Il Paese si chiede se la politica di tolleranza e la condiscendenza con gli adolescenti non abbiano creato errate premesse. Lo scorso anno in Svizzera le sentenze penali nei confronti di giovani (oltre un terzo sotto i 15 anni) sono state 17.415, in aumento del 10% sull’anno precedente.

Atti di violenza e commenti spregiativisulle donne da parte di uomini la cui religione e cultura giustificherebbero tali atteggiamenti impediscono tra l’altro a quest’ultime di passare da certe strade di Stoccolma. In Germania, per giustificare inaccettabili ed indebiti approcci ed offese verbali, vien mosso alle donne il rimprovero di vestirsi in modo provocante. Lo scorso mese a Würzburg un giovane somalo ha accoltellato una decina di donne (solo donne) uccidendone tre.

Ma vi sono altre forme. Pierre Bourdieu, sociologo e portavoce della sinistra, lo scorso secolo ha trattato quella che ha definito violenza simbolica, che viene pure dalla visione del mondo, dai ruoli sociali del potere anche non approvati, dalle élite politiche e no. Anche senza ricorrere all’ideologia e alle critiche al nostro sistema note sono le realtà di violenza nelle burocrazie e organizzazioni private o pubbliche riassunte sotto il nome di mobbing.

Le violenze purtroppo ci accompagnano, sono insite in ognuno di noi che dobbiamo impegnarci a controllarle. In Svizzera preoccupa il deterioramento del dibattito tanto in politica quanto nella società civile. Nessuno vuole più perdere, risultati di votazioni vengono astiosamente messi in discussione, su diversi temi con i quali la nostra società si confronta, come ad esempio quello importantissimo del clima, non è ammesso che si possa essere, anche sbagliando, di avviso diverso. Vien vietato di marciare pacificamente contro l’aborto. Non sono un contro abortista, ma non per ciò voglio vietare di pensarla diversamente. Alcuni gruppi meno ossequiosi marciano quando vogliono senza permesso e talvolta con ostacoli alla circolazione e danni alle proprietà. Proprio perché siamo una democrazia e non uno Stato autoritario (o una dittatura) è giusto che noi si abbia un ampio margine di tolleranza per simili manifestazioni di contestazione e disobbedienza civica che talvolta assumono persino aspetti spiritosi. Come nel caso di chi si è incollato – si è fatto attaccare con la colla – alla parete del Palazzo federale per protestare non ricordo più contro che cosa.

Negli scontri di idee di oggi vi è un rancore, un disprezzo dell’avversario (violenza simbolica), il sabotaggio quando non l’imposizione di cancellare conferenze pubbliche di intellettuali non graditi, in una parola il rifiuto di colloquiare con chi non condivide le nostre opinioni e quindi è da espellere da qualsiasi contraddittorio. Si arriva all’eccesso della Reiterschule di Berna che riproduce figurativamente la testa decapitata dalla ghigliottina di una giornalista del «Tages Anzeiger», perché non condivide gli articoli della stessa.

Conseguenza di un diffuso fanatismo su diversi temi ed argomenti, o semplicemente un modo spiccio per liberarsi da obiezioni difficili da controbattere. Il tutto è forse anche dovuto alla frammentazione della società in una numerosissima serie di rivendicazioni di singoli gruppi, di minoranze che per farsi sentire alzano smodatamente la voce, che cercano l’affermazione e non il consenso. Questa violenza del non voler dibattere, ascoltare le ragioni altrui, non aver rispetto per l’avversario nei migliori dei casi non permette di capire e ostacola stupidamente la possibile eventuale concordia o perlomeno comprensione. Il non rendersi conto che le obiezioni di chi non la pensa come noi ci arricchiscono, ci debbono far riflettere, possono evitarci degli errori e che dialogo ed opposizione sono componenti indispensabili affinché una democrazia possa esistere è un fatto preoccupante.

Pubblicato nel Corriere e riproposto con il consenso dell’Autore e della testata


Relatore

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  • In realtà Pierre Bourdieu con il concetto di “violenza simbolica” intendeva segnalarci i “pesanti” fattori che determinano le irriducibili “distinzioni” sociali/cetuali ( “La distinction”, 1979 / “La distinzione, critica sociale del gusto”, 2001). Interessanti anche gli studi/indagine dei coniugi Pinçon. Inoltre per chi non amasse la “pura” saggistica mi permetto di suggerire “Ritorno a Reims” di Didier Eribon.

    Si interpretano e quindi si giudicano i gusti individuali come “segni distintivi” del grado sociale di appartenenza (“habitus” sociale): dalla cultura tout court evidenziata, alla padronanza della/e lingue; dalla semantica utilizzata nelle conversazioni, alle letture esibite; dal modo di abbigliarsi, fino alla cura corporea che ci può pure permettere d’intuire lo stile alimentare assunto. Bourdieu ha ben inquadrato tali recinti (subìti perché negletti) con il termine di violenza simbolica. Mentre il pregiudizio razziale è giustamente e ampiamente condannato, i pregiudizi di classe, in realtà, non godono di alcun interesse. Tutto ciò fa parte di un corollario sociale che stabilisce separazioni – discriminazioni – volutamente opacizzate.

    Condizioni che non dovrebbero mai superare la soglia di un’incolmabile distanza da rendere fittizio ogni approccio democratico. “Un liberalismo democratico cosciente di sé non può esimersi dal sentire il peso di ciò che non si può risolvere con le regole della democrazia, direi che ha l’obbligo di misurare periodicamente la propria impotenza”. (Walter Siri, “Contro l'impegno“). Anche perché di “distinzioni discriminanti” radicali e subdole (oltre ai famigerati “muri” nazionalistici peraltro quotidianamente presenti e ferocemente condannati nei/dai media) ce ne sono a bizzeffe. Dividono, selezionano e “sanzionano” in un continuo processo clandestino.

    Ai giorni nostri scopriamo perfino una narrazione “dei pochi” che inculca (“ai molti”) (un bel saggio critico di Nadia Urbinati, “Pochi contro molti”) la necessità (o la rassegnazione) di dover accettare le (giuste{!}, così si narra) stratificazioni sociali (classi) basate sul… “merito”, ovvero: la lode ideologica di una separazione netta tra comunità di benestanti (perché… meritevoli, formati, colti e capaci) e gli inevitabili ghetti residuali di povertà, edificati dalla e nella medesima società… civile: insomma accettare l’idea di vivere in ormai riconosciute e legittimate tribù meritocratiche – meglio se tra loro impermeabili – finalizzate… alla (circoscritta) crescita economica.

    Senza dimenticare, infine, che all’interno di questi “confini” eretti a protezione di privilegi specifici ci abitano i predicatori di uguaglianze, di società aperte, di metropolizzazioni integrative. Uno schermo fumoso di chiacchiere costruito per dissimulare una società che si orienta sempre più verso una feroce e consapevole reintroduzione di vere e proprie caste. E di conseguenti bacini di confronto che possono determinare perfino e purtroppo una crescente idea di devastante violenza.

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