Gli iniziativisti, sconfitti dai Cantoni, sono amareggiati (e vorrebbero liquidarli)
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Bell’articolo “istituzionale” dell’Avvocato, ovviamente in un ottica “non rivoluzionaria”.
“Non ci (vi) piace più la Svizzera così com’è?” si domanda, rivolgendosi agli adirati e scornati sinistri. Avvocato, la sua domanda è retorica, la risposta è Sì!
C’è una cosa che il maître-à-penser del Liberalismo non dice (magari la sottintende), e allora la dico io. Il voto del 29 è stato pessimo, in realtà abbiamo preso una solenne legnata. Mai sentito parlare di Berna, Losanna, Ginevra, Zurigo, Basilea? L’eroico e messianico Dick nella sconfitta trionfa, e il noto politologo PS deplora i Cantoni, che bloccano il progresso illuministico del Paese.
Son tempi grami. L’orrida pandemia lede gravemente la vita sociale; la Comunicazione è ridotta a un ossessivo brainwashing; la sinistra avanza; non si può neppure sciare (ma forse un po’ sì).
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Siamo una nazione di orologiai di successo, e il più prezioso, delicato, importante orologio da noi costruito è quello istituzionale. Abbiamo strutturato la nostra democrazia semidiretta con una serie di accorgimenti, limitazioni, contropoteri non solo esplicitati ma anche risiedenti nella consuetudine facendone un modello di notevole successo che non ha uguali nelle altre democrazie.
Abbiamo un Governo che non è un governo nel senso classico della parola, come in atto nelle nazioni confinanti. È un «direttorio» di marca napoleonica incaricato dell’amministrazione del Paese e non l’espressione di una maggioranza e programmi del momento. Nel tempo il nostro pragmatico buonsenso ha permesso l’accesso al Consiglio federale del partito dei cattolici, durante l’ultima guerra si è capito che la compattezza della nazione, in momenti di emergenza e dei pericoli delle dittature, non poteva ignorare la forza politica operaia, infine nel 1959 si è varata la formula magica, con tutti i maggiori partiti, nonostante le loro divergenze programmatiche, uniti nel gestire le necessità del Paese. Abbiamo consiglieri federali nominati per un quadriennio, che non possono venir sfiduciati e, salvo eccezioni, rieletti regolarmente, assicurando una stabilità che le altre democrazie ci invidiano. Il presidente della Confederazione è nominato per un anno (regola che vale anche per le cariche parlamentari) a turno tra i membri del governo, del quale presiede i lavori e assume la rappresentanza protocollare del Paese. Non necessitiamo di un capo dello Stato che rimpiazza la figura del sovrano, dato che non abbiamo mai conosciuto la monarchia.
Per i membri del Consiglio federale, con buonsenso paesano non privilegiamo i caratteri da primadonna, la super intelligenza di Furgler per finire ci dava fastidio, all’intellettualità di un Leuenberger non abbiamo prestato molta attenzione, la competenza manageriale di un Blocher era sospetta. Siamo una Willensnation dato che ciò che ci unisce non sono lingua, confessione, cultura, in effetti diverse, ma la volontà di stare insieme, di essere svizzeri.
Il pericolo della democrazia, come si sa, sta nel potere della maggioranza che potrebbe decidere di porre fine alla democrazia stessa. Anche se con qualche inesattezza al proposito si cita l’ascesa al potere di Hitler. Trama ed ordito della nostra tela istituzionale impediscono la concentrazione di e la dipendenza da un potere. Abbiamo trovato una serie di freni istituzionali che condizionano la maggioranza e tutelano le prerogative dei cantoni, ponendo un argine a decisioni non sufficientemente condivise. Parlando del Sonderbund si sottolinea lo scontro tra riformati e cattolici, dimenticando però la pesante frattura tra cantoni rurali e cantoni degli agglomerati urbani e dell’economia, frattura che sussiste oggi ancora. Il nostro sistema cerca di equilibrare la pericolosità di questa situazione.
Sempre il nostro senso pratico ci ha fatto capire che oltre a concedere pari dignità ai singoli cantoni per raggiungere il traguardo un veicolo deve accompagnare alla velocità del motore la possibilità di usare i freni. E il veicolo Svizzera nelle diverse classifiche che valutano i successi non solo economici, ma relativi alle prestazioni sociali, alla qualità di vita e al benessere, è sempre ai primi posti. È fuori luogo vedere in ciò la conferma del successo del nostro sistema sia pure con inevitabili imperfezioni?
Il risultato del voto relativo all’iniziativa popolare «Per imprese responsabili – a tutela dell’essere umano e dell’ambiente» ha particolarmente amareggiato gli iniziativisti bloccati dalla larga maggioranza negativa dei voti dei Cantoni che ha frustrato il risultato del voto popolare a livello nazionale.
Capisco la delusione di vedersi sconfitti dopo l’intenso impegno di una campagna durata cinque anni, il fatto di essere riusciti ad unire nello sforzo oltre cento ONG (organizzazioni non governative, sul ruolo e l’impatto delle quali nel panorama della democrazia svizzera bisognerà tornare a parlare), l’esser riusciti ad avere l’appoggio ed il massiccio intervento delle gerarchie ecclesiastiche cattoliche e protestanti (altro tema da approfondire) e un costo della campagna di oltre dieci milioni di franchi.
Eviterei però reazioni impulsive quali quelle del capogruppo della deputazione socialista alle Camere federali Roger Nordmann e della deputata verde Regula Rytz, che vorrebbero subito abolire la disposizione che richiede la doppia maggioranza, popolo e Cantoni, da loro ritenuta antidemocratica.
È sensato, perché indispettiti da un risultato insolito e con un solo precedente, modificare sostanzialmente una struttura che ha contribuito all’equilibrato e non provvisorio successo della Svizzera? Ci vogliamo assumere la responsabilità di togliere diritti acquisiti con conseguenti rancori e fratture? Più ancora vogliamo cambiare la faccia, la struttura della democrazia svizzera per diventare più simili agli altri, con i loro gravi problemi? Non ci piace più la Svizzera come è? Se ne può parlare, è un dibattito legittimo proprio perché siamo in una democrazia. Ma vediamo di non farlo sotto l’impulso di una sconfitta che non si vuole accettare
Tito Tettamanti
Pubblicato nel CdT e riproposto con il consenso dell’Autore e della testata
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«Se arrivi a cinquant'anni senza Rolex sei un fallito». Pare abbia sentenziato un pubblicitario francese anni fa. Almeno così narra la leggenda (dopo quella della mela confederata). Quindi un “endorsement” molto vicino alla realtà economica elvetica.
Fuori dalle battute orologere e …più (o meno) seriamente ripongo la questione a sapere “chi e cosa possa aver cambiato il tessuto sociale (civico) delle grandi città che hanno votato SÌ all’iniziativa sulla responsabilità delle imprese.” (cit. "oltregottardo")
Pure a me sembra che sia stata la politica economica degli stessi potentati …economici che oggi si “allarmano” del risultato popolare (come pure dei loro “intellettuali organici”) e che ci richiamano alla Costituzione e ai valori del federalismo elvetico. Risultati che “rivelano semplicemente” le due facce della stessa medaglia che si volevano tener ben separate. (cit. "oltregottardo")
In altre parole una domanda: i grandi agglomerati urbani “nazionali” hanno subito una mutazione antropologica che ha rallentato? opacizzato? sostituito? i concetti civici classici ai quali si riferiscono gli svizzeri …costituzionalisti? Fenomeno (la mutazione) che non desidero “giudicare”: non è mia intenzione inserire nella discussione un giudizio valoriale. Mi pongo la questione.
La “vexata quaestio” si riassume poi nei due termini di insider/outsider che meritano tuttavia un chiarimento di significato. Per l’ideologia mercantile neoliberista il termine insider viene utilizzato per identificare (anche negativamente perché ritenuti beneficiari di una seppur minima protezione sociale) tutti coloro che ancora mantengono una (scomoda?) visione di politica economica territoriale specifica, magari molto legata ai principi costitutivi (federalismo elvetico costituzionale) del territorio nel quale sono cresciuti. I “famigerati” sovranisti.
Viceversa il termine outsider viene utilizzato (soprattutto per richiamarci a un necessario principio di integrazione) in una visione mercantile ”progressista” per definire coloro che hanno deciso di lasciare il proprio territorio d’origine alla ricerca di una nuova identità. Ciò non significa che siano tenuti necessariamente a dover condividere i principi politici costitutivi specifici del territorio ospitante. Fors’anche perché probabilmente più legati (quali cittadini del mondo) a scelte di carattere etico globale. (Ciò che si può rivelare perfino negli aspetti intercantonali: un ticinese probabilmente fatica a identificarsi con un cittadino glaronese allorquando quest’ultimo sostiene (oclocrazia?) il principio inderogabile della Landsgemeinde.)
Il nostro momento storico è sostenuto tuttavia da un sistema economico mondializzato che ha già fatto (da tempo) le sue scelte nell’azione concreta del meccanismo produttivo, quindi dovrebbe essere ben consapevole anche degli aspetti spesso contraddittori che genera anche come risultato di quell’individualismo competitivo mercantile che tende ad escludere ogni forma di etica collettiva ("nazionale") che si esprime in una Willensnation