da ETiCinforma.ch, per gentile concessione
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Ci è piaciuto questo articolo, che non interpretiamo, né proponiamo, come accusa a chicchessia. In noi alberga una specie di fatalismo che ci induce ammettere: non può essere che così. La libertà sognata è grande e splendida. Ma la libertà disponibile nel reale è limitata, potremmo quasi dire handicappata. Figlia di un Dio minore.
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E’ chiaro ed evidente che i giornali vivono e si sfamano di tre alimenti: gli abbonati, gli sponsor e le informazioni. Anche durante questo periodo di crisi, si constata come questi tre alimenti siano importanti e come le informazioni siano modellate a dipendenza delle altre pietanze sul piatto.
Quando leggiamo i vari editoriali, quei pezzi di vero giornalismo che dovrebbero essere scevri da ogni condizionamento, ci rendiamo conto che sono articoli confezionati dai vari direttori, non liberi di esprimersi come magari vorrebbero. Viene dunque anteposta l’economia di sopravvivenza del giornale stesso al pensiero libero di chi scrive. Quando leggo gli editoriali, entro nel senso delle frasi e capisco come chi scrive abbia una guida poco spirituale che fa esprimere con nuance più o meno marcate le idee, forse non sue ma di chi finanzia l’organo di informazione. In questo sistema si viene meno all’informazione e si fa semplicemente un atto dovuto ai propri finanziatori.
Va anche detto che molti di questi giornali hanno vari dipendenti e per cui diventa quasi obbligatorio giocare il ruolo delle parti. Questo è il mondo in cui viviamo e in questo periodo di profonda crisi etica, sociale, culturale ed economica, il valore del giornalismo libero viene meno, salvo chi predilige l’ideale libero di scegliere cosa scrivere, anziché i giochi di opportunismo economico. A noi di ETC non interessa cosa succede, vogliamo con la nostra coscienza essere in chiaro: scriviamo quel che sentiamo, scriviamo le nostre emozioni. I nostri sponsor, piccoli commerci a cui noi diamo visibilità, non interferiscono nelle nostre opinioni, che a volte cocciano contro un economia disumana, perdendo magari anche qualche spicciolo, ma avendo la convinzione di fare vero giornalismo e di esprimere sempre e incondizionatamente le nostre idee, piacciano o non piacciano.
Roberto Bosia
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La questione dell’affidabilità della stampa “Certificata” è una vecchia faccenda anche se, presumo, tutti abbiano da tempo intuito che tra informazione e propaganda le differenze siano ormai impercettibili, anche perché le news, anche quotidiane, risultano essere sempre più il prodotto finale di un invisibile processo ideologico.
Un gran numero di “agenzie informative” si (auto)definiscono tuttavia e malgrado "indipendenti". Anche in questo caso viene usata un vecchia e superata etichetta: non legati a uno schieramento politico, a un partito o a uno specifico credo, si afferma. Ciononostante è altrettanto imprescindibile il fatto dell’inevitabile patrocinio di uno specifico patrimonio di idee, di una corrente di pensiero, di un'area ideologica affini alla concezione economica, politica, filosofica, perfino confessionale specifiche dei suoi finanziatori: il cosiddetto patrimonio dell’inconscio editoriale che indirizza la famosa… fabbrica del consenso.
A proposito dell’evidente condizionamento ideologico, le perle “peggiori” s’incontrano in questi drammatici giorni: leggo con particolare ironia e relativo immediato disgusto prese di posizione di “eminenze” giornalistiche che si pongono (ora) retoriche domande sugli evidenti (a loro dire imprevedibili) eccessi della globalizzazione. Il fatto è che l’imprevedibilità appare come un pretesto assai cinico, se confrontato con un’immensa saggistica da tempo assai critica sulle (prevedibili e previste) nefaste ricadute di un’estrema e acritica mondializzazione: aspetti ai quali non è mai stata data voce sulle pagine (e dagli schermi) del giornalismo paludato, che ora flirta perfino col vento che parrebbe cambiare.
Interessante, per certi versi, anche il continuo giocare sui termini di responsabilità individuale e responsabilità collettiva: identica cosa ma con profonde e taciute differenze ideologiche legate alla fuorviante convinzione che la società sia la semplice somma di comportamenti individuali. Il minimo che si possa dire è che il post-giornalismo, oltreché essere deleterio, apre la strada alla disinformazione.
D’altra parte, e purtroppo, ho sentito più volte ripetere che il compito del giornalismo non dev’essere quello di fare della pedagogia. Sarebbe come implicitamente confessare che il suo scopo sia quello di ottemperare alla propaganda imposta dal "clima" egemone e dalle relative ricadute pubblicitarie. Quindi un'autocertificazione di indipendenza vale per quel che vale. Anzi, per chiarezza e trasparenza, sarebbe concetto da superare perché, in sostanza, “informazione indipendente” potrebbe perfino essere un classico …paradosso. Il che porrebbe seri interrogativi sui limiti di una reale oggettività dell’informazione (anche) a gestione pubblica (cfr. articolo O.Galli). Anche qui: lourde tâche.
Oso avanzare l'idea che la certificazione di indipendenza dovrebbe essere assegnata annualmente da una giuria …indipendente.
E …Certificata.
La questione dell’affidabilità della stampa “Certificata” è una vecchia faccenda anche se, presumo, tutti abbiano da tempo intuito che tra informazione e propaganda le differenze siano ormai impercettibili, anche perché le news, anche quotidiane, risultano essere sempre più il prodotto finale di un invisibile processo ideologico.
Un gran numero di “agenzie informative” si (auto)definiscono tuttavia e malgrado "indipendenti". Anche in questo caso viene usata un vecchia e superata etichetta: non legati a uno schieramento politico, a un partito o a uno specifico credo, si afferma. Ciononostante è altrettanto imprescindibile il fatto dell’inevitabile patrocinio di uno specifico patrimonio di idee, di una corrente di pensiero, di un'area ideologica affini alla concezione economica, politica, filosofica, perfino confessionale specifiche dei suoi finanziatori: il cosiddetto patrimonio dell’inconscio editoriale che indirizza la famosa… fabbrica del consenso.
A proposito dell’evidente condizionamento ideologico, le perle “peggiori” s’incontrano in questi drammatici giorni: leggo con particolare ironia e relativo immediato disgusto prese di posizione di “eminenze” giornalistiche che si pongono (ora) retoriche domande sugli evidenti (a loro dire imprevedibili) eccessi della globalizzazione. Il fatto è che l’imprevedibilità appare come un pretesto assai cinico, se confrontato con un’immensa saggistica da tempo assai critica sulle (prevedibili e previste) nefaste ricadute di un’estrema e acritica mondializzazione: aspetti ai quali non è mai stata data voce sulle pagine (e dagli schermi) del giornalismo paludato, che ora flirta perfino col vento che parrebbe cambiare.
Interessante, per certi versi, anche il continuo giocare sui termini di responsabilità individuale e responsabilità collettiva: identica cosa ma con profonde e taciute differenze ideologiche legate alla fuorviante convinzione che la società sia la semplice somma di comportamenti individuali. Il minimo che si possa dire è che il post-giornalismo, oltreché essere deleterio, apre la strada alla disinformazione.
D’altra parte, e purtroppo, ho sentito più volte ripetere che il compito del giornalismo non dev’essere quello di fare della pedagogia. Sarebbe come implicitamente confessare che il suo scopo sia quello di ottemperare alla propaganda imposta dal "clima" egemone e dalle relative ricadute pubblicitarie. Quindi un'autocertificazione di indipendenza vale per quel che vale. Anzi, per chiarezza e trasparenza, sarebbe concetto da superare perché, in sostanza, “informazione indipendente” potrebbe perfino essere un classico …paradosso. Il che porrebbe seri interrogativi sui limiti di una reale oggettività dell’informazione (anche) a gestione pubblica (cfr. articolo O.Galli). Anche qui: lourde tâche.
Oso avanzare l'idea che la certificazione di indipendenza dovrebbe essere assegnata annualmente da una giuria …indipendente.
E …Certificata.