Una vera soluzione, lo ripeto, non c’è, ma uno spiraglio ce lo offre la parola “proporzionalità”. Il che significa concretamente che occorre monitorare l’evolversi dell’epidemia e prendere misure crescenti o decrescenti, secondo il livello di gravità osservato. Ma anche questo approccio può essere criticato, così: “avete aspettato troppo e il virus si è diffuso nel territorio!”
Torniamo a bomba. Chiudere le nostre scuole? Per una volta (non capita spesso) do ragione a Bertoli: no. La situazione nel Ticino obiettivamente non è così grave. Per di più i bambini e i ragazzi – fuori dalle aule – saranno veramente al sicuro? Metterei infine in evidenza il seguente aspetto, positivo: i docenti potranno istruire gli allievi e indirizzarli verso un comportamento disciplinato e corretto.
Francesco De Maria, opinione pubblicata sul Mattino odierno
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“Per di più i bambini e i ragazzi – fuori dalle aule – saranno veramente al sicuro?
L’intervento (controcorrente, “assordante”, probabilmente discutibile”) del direttore del Laboratorio cantonale, riportato da tutti i portali online nostrani, comunque rivela le reali difficoltà di saper accordare i principi di salute pubblica con gli interessi totalizzanti della nostra organizzazione economica, quindi sociale di cui la scuola è ostaggio.
Insomma una delle ragioni della non chiusura - diciamocelo - è relativa al fatto che il doppio reddito oggi è obbligatorio alla sopravvivenza economica di una famiglia. Quindi il lavoro diventa un fattore pure "totalizzante". In fondo è quello che trapela (a-me-par-di-capire-ma-forse-mi-sbaglio) dal riassuntivo “decidere con la testa” del direttore del Cdt. Discorso lungo che andrebbe fatto. Più in là.
Tuttavia il silenzio più “assordante” ritengo, anche in questi casi, sia quello degli “intellettuali” abituati altrimenti a logorroiche crociate per difendere le ormai stantie tematiche del politicamente corretto internazionalista, mostrando - ovviamente - la loro natura elitaria (che diventa astensionismo) relativamente ai problemi pratici, concreti, quotidiani dov’è coinvolta la gente comune: intendo dire quell’inesistente lavoro preventivo di indispensabile e minuta analisi sociale. Quel lavoro per il quale la comunità ha pagato loro gli studi.
Leggevo proprio ieri sul CdT un articolo relativo ai disagi nelle periferie francesi dovuto al non riconoscimento delle minime norme statali indicanti la laicità così come sancita dalla costituzione e alla conseguente crescita di comunità tribali off-line. Ebbene, l’intervistato alla domanda del perché il tema sia poco dibattuto, non poteva che ammettere la latitanza degli intellettuali: professori universitari e ricercatori preferiscono evitare l’argomento.
Lo stesso vale (altrove) per i temi come, nello specifico, gli effetti perversi di una indiscriminata globalizzazione. Parrebbe perfino, si dice, che nelle facoltà di economia i (dis) corsi siano improntati, all’unisono, sulle indiscusse e indiscutibili qualità del mercatismo globalizzato.
Il primo dovere degli intellettuali – diceva un… noto intellettuale – sarebbe quello di insegnare alle persone a rintuzzare tutte le menzogne che attraversano la musica mediatica mainstream e che innondano e che soffocano ogni pensiero divergente. Mentre oggi – aggiungeva il noto intellettuale – troppi di loro accettano sostanzialmente la dottrina imperante mostrando invece disprezzo per le vittime che ne sono irretite, perfino accusandole di essere degli stolti.
Mentre gridano alla “grande ignoranza”, stigmatizzano “la prevalenza del cretino” e accusano i “social” di ogni nefandezza, essi (gli “intellettuali”), non sono affatto scandalizzati dalla mostruosità della neolingua di chi possiede le chiavi dei grandi mezzi economici. E concludeva: chi accetta una trasformazione – imposta dai potenti – (globalizzazione rapace finalizzata al consumismo estremo con le sue ricadute perverse) vuol dire che non sta dalla parte di chi subisce tale avvilente alienazione.
Chiaro come l’acqua cristallina o/e come un film di Ken Loach.