Il Prof. Paolo Briganti (docente di Letteratura Italiana Contemporanea, Università degli Studi di Parma) ha curato e pubblicato la tesi di laurea specialistica di Jelena Radojev, divenuta così un eccellente saggio sul genere “romanzo” nel Primo Novecento: In una rete di fili che s’intrecciano – Sintomi dello squilibrio nel romanzo modernista. Il docente ha dunque raccolto e reso possibile la fruizione dell’eredità lasciata dalla Radojev, contemporaneista e comparatista (e, insieme, prima ancora, studiosa di musica e lei stessa musicista d’organo). Ticinolive intervista al riguardo il Professore.
Professore, qual è la prima immagine che Le viene in mente, quando ripensa a Jelena Radojev?
Quella di una donna sensibile, intelligente e schietta, di sterminate letture, ed anche – come oggi si ama dire – multitasking; entusiasta di molteplici forme d’arte e amante della cultura in genere, pronta a collaborare in ogni modo alla vita dell’università. Si era affacciata al nostro Dipartimento di Italianistica da studentessa: allora aveva già trent’anni e quasi due lauree in Jugoslavia, ma pareva sì e no una ventenne. (Poi, a Parma, di lauree ne prese altre due, in Filosofia e in Giornalismo, mentre lavorava al front-office del nostro dipartimento di Italianistica e faceva la spola quotidiana in treno fra Cremona e Parma).
Una Tesi, la sua ultima, divenuta un saggio. Pensa che una parte dell’Autore sopravviva nelle sue opere (come ebbero a dire Orazio e Cavalcanti qualche secolo addietro?)
Certo. Naturalmente questo vale tanto più quanto più un’opera è valida in sé. Ed io credo proprio che questo saggio consenta a Jelena di parlarci ancora, di dirci ancora quel che le stava a cuore rispetto a certe condizioni psicologiche e le tante nevrosi (e peggio) dell’uomo contemporaneo.
La Sua postfazione e le Sue note al saggio sono scritte, oltre che con particolare ed ovvia cura scientifica, anche con sentimento. È la passione, a Suo parere, a produrre l’arte? Come l’amor che move ‘l sole e l’altre stelle?
Nelle opere d’arte creative, la “passione” (nel senso fondamentalmente di convinzione ed adesione al proprio argomento) è una componente fondamentale; ma l’altro “ingrediente” imprescindibile è la capacità tecnica, senza la quale la “passione ispiratrice” non potrebbe esplicarsi adeguatamente. Un po’ la stessa cosa, direi, per lo studio delle opere stesse; anche se è assai frequente, soprattutto nell’attività accademica, lo studio “a freddo”, che da un lato garantisce forse di più sulla scientificità dell’approccio, ma dall’altro rivela uno spostamento della “passione” dall’oggetto di studio all’attività di ricerca in sé (e, nei casi peggiori, all’uso “personale” dello studio: che so? pubblicare, fare carriera…). Nel caso di questa pubblicazione, forzatamente postuma, mi pare che Lei, Lei intervistatrice dico, abbia còlto il sentimento portante di questa mia cura editoriale. Sì, in questo mio lavoro (di recupero e messa a punto di un’opera critica ad Autrice scomparsa) il “motore primo” è stato quello della stima e dell’amicizia, convinto, com’ero, che il mio impegno fosse qualcosa di “appassionatamente” dovuto a Jelena Radojev, studiosa in fondo ancora tutta “implicita”, che dunque meritava la pubblicazione: rendere esplicito e pubblico il suo talento, sia pur post mortem, è stato un atto di umana passione, di amicizia e giustizia, al di sopra della vita e dalla morte. Qualcosa insomma che resta.
Perché Jelena aveva scelto proprio quei tre autori modernisti, Svevo, la Woolf e Forster?
Non aver mai pensato a chiederglielo esplicitamente in vita resta un po’ un mio cruccio… Ma in effetti non c’era molto bisogno di chiederglielo: i tre romanzi scelti dalla Radojev parlano del disagio che opprime diffusamente l’uomo contemporaneo, sia pur in quote e varietà diverse… Parlano insomma anzitutto di lei, certo, ed anche più in generale di noi, di tutti noi.
Il Suo corso di Letteratura Italiana Contemporanea, all’Università di Parma, s’è occupato quest’anno proprio dei suddetti autori. Omaggio o sinergia d’intelletto?
Entrambe le cose. Uno dei miei oggetti di studio ciclicamente “ritornanti” (dal 1985) è Italo Svevo, e da qualche anno pensavo di tornare a lui in un mio corso. Frattanto, avendo completato la cura del saggio di Jelena e avendolo potuto dare sollecitamente alle stampe – grazie al sostegno di amici e colleghi di Parma, e alla larga e intelligente disponibilità di Pietro Lia (titolare delle edizioni universitarie Uni.Nova) –, ho pensato che parlare ai miei studenti (di “secondo livello”: Laurea Magistrale) di Svevo all’interno di una “nozione” letteraria europea come il Modernismo (in Italia poco praticata, tanto che da noi l’etichetta indica prioritariamente una corrente religiosa) sarebbe stata una splendida occasione per chiudere il mio ultimo corso universitario e, insieme, rendere omaggio all’intelligenza e sensibilità critica di Jelena Radojev.
Certo la Prima Guerra Mondiale fu un bell’incentivo per le insicurezze e paure più o meno latenti, anzitutto per la dimensione enorme della tragedia; poi, nei decenni seguenti, per la delusione rispetto al “mito” secondo cui quella guerra sarebbe stata l’ultima: già alla fine degli anni Trenta fu chiarissimo infatti che l’immane tragedia del ’14-18 non ci aveva affatto vaccinati. Anzi! Ma la “crisi delle certezze” aveva avuto inizio anche prima: fu una crisi indotta, oltre che da nuovi orizzonti scientifici e conoscitivi, proprio dal mutamento della società, dalle modificazioni e tensioni dei rapporti tra le classi, e, in conseguenza, da un mutamento radicale della vita quotidiana in ogni suo aspetto. Jelena Radojev riprende una considerazione di Virginia Woolf che, per tale cambiamento, si permette il lusso di fissare addirittura una data precisa: dicembre 1910. A parte la data consapevolmente convenzionale, la Woolf sostiene che “Tutti i rapporti umani si sono spostati – quelli fra padroni e servitù, mariti e mogli, genitori e figli. E quando i rapporti umani cambiano c’è allo stesso tempo un cambiamento nella religione, nella condotta, nella politica e nella letteratura”. Di qui la crisi d’ogni certezza, d’ogni valore precedentemente considerato inalterabile ed indiscutibile.
Descriverebbe, in una frase, Jelena Radojev?
Un concetto, veicolato da un’immagine: quella del funambolo. “Il funambolo – scrive Jelena stessa – è costantemente sollecitato dal fenomeno dello squilibrio e al tempo stesso dalla lotta per la riconquista dell’equilibrio. […] Il funambolo non trova altri punti d’appoggio se non nella stessa aria che intorno alla sua figura si fa più densa, perché egli possa resistere. Le correnti d’aria che lo vorrebbero spingere fuori dall’equilibrio provengono da tutte le direzioni, ed è chiaro che il suo mantenersi in bilico sia una vera Arte. […] Talvolta egli discende, per calarsi insomma nella realtà, ma sulla terra non trova più sé stesso”.
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