Ma riepiloghiamo i fatti. Nel 1948, durante la prima guerra arabo-israeliana, 700.000 fuggiaschi palestinesi si sono rifugiati nelle nazioni confinanti Giordania, Libano e Siria. Nel 1949 venne costituita quale agenzia delle Nazioni Unite l’UNRWA per soccorrere ed occuparsi degli sfollati, ma da allora son passati 70 anni e nei campi per profughi gestiti dall’agenzia (compresi quelli nelle zone autonome della Palestina) vivono 5 milioni di persone, appartenenti ormai a tre generazioni. Ora si può continuare ad illuderli su di una prossima soluzione e tenerli in campi profughi e così facendo impedire loro di integrarsi e vivere una vita normale nei Paesi di loro attuale residenza?
L’UNRWA è contraria a rivedere le sue politiche e reagisce con estrema suscettibilità quando qualche voce critica denuncia finanziamenti ad organizzazioni palestinesi non molto trasparenti e sospette di connivenza con l’estremismo, come pure quando gli aiuti finiscono in scuole e libri di testo che predicano l’antisemitismo, certo non la via migliore per pacificare gli animi. Con un miliardo di dollari di budget all’anno sarebbe da ingenui pensare che non vi siano anche interessi e redditi di posizione da difendere.
Al di là di feroci e dilanianti divisioni, tanto feroci quanto lo possono essere le guerre di religione, senza voler prendere parte per nessuno e sapendo che i torti sempre si dividono, non sarebbe atto di grande umanità, di buonsenso e realismo cercare al di fuori da ogni revanscismo un futuro per permettere a uomini, donne e specialmente bambini di rifarsi una vita uscendo dalla condizione di perenne rifugiato?
Nell’ambito delle proprie tradizioni non sarebbe un ruolo veramente umanitario per una Svizzera, che inviti a superare il velo dell’ipocrisia ufficiale per preoccuparsi di trovare strade che permettano a milioni di persone di abbandonare la condizione di profugo senza alternativa? Le soluzioni non sono facili e ci si può urtare con progetti di politici di parte ai quali però non si dovrebbe permettere di giocare con le condizioni di vita di milioni di esseri umani.
Non sono uno specialista della difficile materia, ma da cittadino mi pare che il passo di Cassis sia da plaudire come una boccata di aria fresca, come un invito a ripensare un problema di difficile soluzione ma che non può venir ulteriormente sottaciuto.
Il nostro ministro degli Esteri ha tuttavia irritato con il suo intervento quegli interessi burocratici e politici che non ammettono che ci si permetta di sospettare che il re è nudo. Tutta la casta dei burocrati – svizzeri e internazionali – che non accetta di essere fallibile, casta che pesantemente influenza i consiglieri federali, tutta la galassia che si occupa – e spesso vive – con questi e di questi argomenti ha reagito indignata accusando Cassis di trumpismo. Gli operatori di queste agenzie, specialmente quelli sul campo, sono da ammirare, agiscono in condizioni spesso disperate in realtà difficili e corrotte e si scontrano con mentalità tribali. Però non possono pretendere di essere i soli portatori della verità e di essere al di sopra di ogni sospetto. Compreso il sospetto di tendenze filo-arabe e del fatto che spesso troviamo chi fermamente deplora l’antisemitismo ma alla parola «ebreo» aggiunge sempre «però…». Posizioni che avevano una loro ragione a metà dello scorso secolo non possono ignorare i mutamenti intervenuti ovunque.
Non vi è certo motivo di vanto, non per Cassis che troverà conferma delle sue idee negli scritti di Angus Deaton (Nobel 2015 per l’economia) e nel libro Gestrandet. Warum unsere Flüchtlingspolitik allen schadet – und was jetzt zu tun ist (Siedler, 2017), ma per un Consiglio federale sempre più espressione di paure internazionali che di indipendenza.
Tito Tettamanti
Pubblicato nel CdT e riproposto con il consenso dell’Autore e della testata
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