Pur con tutto il rispetto per l’esimio docente, devo in gran parte dissentire da lui. Sembra ovvio, per molti osservatori occidentali, attribuire i successi elettorali di Zar Vladimir alla presunta mancanza di libertà che , dopo quasi un trentennio dalla fine del comunismo, caratterizzerebbe tuttora il clima politico e istituzionale della superpotenza est-europea. Di sicuro, a Mosca non regna una democrazia di tipo occidentale. Occorre peraltro ricordare che simile modello è sempre rimasto estraneo alla sua storia, sospesa fra una prima monarchia assoluta d’origine scandinava, i rurikidi , una seconda più marcatamente slava, i Romanov e infine la tirannide bolscevica. I soli periodi in cui si è tentato di applicare modelli vagamente liberali sono i pochi mesi del governo Kerenski , travolto dalla rivoluzione d’ottobre, e i nove anni di Eltsin (1991-2000) , caratterizzati però da corruzione, anarchia, arbitrio dispotico dei grandi oligarchi, spaventoso immiserimento delle masse.
Putin, nel 2000, ha ereditato una situazione da guerra civile che, qualora non fosse stata governata, avrebbe potuto degenerare in modo irreparabile, ponendo a rischio non solamente la Russia e la sua sopravvivenza, ma l’intero equilibrio planetario, dato il potentissimo arsenale atomico da essa posseduto che, in assenza di qualsiasi forma di legalità e potere costituito, avrebbe potuto facilmente cadere in mano ad avventurieri interni o terroristi internazionali. Un primo merito che dobbiamo riconoscere a Vladimir è avere scongiurato questo scenario da film horror , ma non è tutto. Sul piano interno non si è limitato a promuovere l’élite industriale, ma ha saputo dar vita a un nuovo ceto medio formato da piccoli imprenditori, artigiani , commercianti e professionisti, ovunque garanzia di moderazione ed equilibrio. Oltre alle statistiche , gli stessi operatori turistici della costa romagnola, della Versilia e della Sardegna, possono confermare questa tendenza: mentre fino a 10-15 anni or sono comparivano all’orizzonte soltanto i lussuosi yacht degli oligarchi di regime, adesso giungono in gran numero famiglie di normali benestanti, come se ne vedono dappertutto nel mondo.
Per ottenere in così poco tempo tali risultati, la dirigenza politica ha dovuto certamente limitare parte delle libertà civili, esito tanto più necessario in un paese privo di tradizioni democratiche, ma anche sotto questo aspetto il governo di Putin si è mostrato più aperto di altre realtà simili, come per esempio la Cina, ove lo sviluppo di una economia di mercato ha richiesto l’opera di un duro e intollerante totalitarismo. In Russia, pur con tutti i condizionamenti che conosciamo, una sorta di pluripartitismo esiste , ogni quattro anni si vota con candidature alternative e la militanza in un movimento d’opposizione è in linea di principio ammessa. Il consenso elettorale di cui gode il nuovo Zar si può legittimamente ritenere gonfiato ad arte, ma entro certi limiti. Anche se si fosse votato all’occidentale, egli avrebbe comunque prevalso, magari con il 60% anziché col il 74. La ragione è che il cittadino medio avverte un netto miglioramento delle proprie condizioni di vita rispetto alle epoche precedenti.
La carenza di comprensione di quanto avviene in Russia non si ferma tuttavia qui. Spesso i commentatori ignorano la diversa scansione temporale con cui si muovono gli avvenimenti in quell’immenso paese, rispetto ai nostri. Per informarsi meglio consiglierei loro la lettura di due opere fondamentali , redatte peraltro in stile piacevole e leggero: Alain de Benoist, Alexander Dugin, Eurasia , Vladimir Putin e la grande politica , ed. Controcorrente 2014; Alexander Dugin, Eurasia, la rivoluzione conservatrice in Russia, ed. I libri del Borghese 2015. Le considerazioni che balzano agli occhi, consultati questi testi, sono in definitiva le stesse che emergono dalla lettura di Leo Tolstoj, autore che qualche critico presuntuoso ritiene oggi superato. Il vecchio conte, uno dei più grandi geni della letteratura mondiale, ha scritto pagine immortali, nella conclusione di Guerra e Pace , che tutti dovrebbero meditare, in particolare gli attuali politici, famosi invece per la loro crassa ignoranza. Egli considera la guerra napoleonica del 1812 un episodio del periodico flusso delle popolazioni asiatiche verso Occidente, interrotto da sporadici riflussi in senso contrario. Tale si palesa il movimento demografico fin dalla comparsa dell’uomo in quelle contrade: le cosiddette invasioni barbariche altro non sono che un sovrapporsi di tribù nomadi , tutte di provenienza orientale, che divengono stanziali in Europa, ma sempre incalzate da quelle successive. Di tanto in tanto le prime si ribellano alle seconde, dando vita a controspinte sotto forma di spedizioni militari nei territori da cui arrivano le nuove. Così si spiegherebbero le grandi campagne contro la Russia condotte dagli svedesi, dai francesi, dai tedeschi, e quelle minori promosse da ungheresi, romeni, slavi occidentali.
Se Putin, leader risoluto ma prudente, avanza in punta di piedi, ben più esplicito appare il movimento eurasista , che trova in Alexander Dugin il capo da tutti riconosciuto. Vale quindi la pena leggere quanto egli afferma ( Eurasia, la rivoluzione conservatrice in Russia, cit., p. 58):
“Contro l’instaurazione dell’ordine universalistico atlantista e contro la mondializzazione, si ergono i partigiani del mondo multipolare: gli eurasisti . Essi difendono per principio la necessità di preservare l’esistenza di ogni popolo della terra, la feconda diversità delle culture e delle tradizioni religiose, l’imprescrittibilità del diritto dei popoli a scegliere in maniera indipendente la propria via di sviluppo storico. Gli eurasisti accolgono l’insieme delle culture e dei sistemi di valore, il dialogo aperto tra i popoli e l’organica combinazione tra devozione per le tradizioni e impulso creatore”.
I russi sembrano avere stavolta ben compreso che il risorgere del loro paese e della loro civiltà non può più misurarsi, al contrario di quanto accadeva in passato , sulla sfida militare all’Occidente, che li vedrebbe soccombenti, bensì sul confronto fra un modello sociale conservatore-spiritualista, e uno edonista-materialista. Non a caso Dugin si dichiara vicino ai massimi pensatori tradizionalisti occidentali, quali Guénon , Evola, Burckhardt, Corbin, in nome della lotta alla decadenza e al nichilismo imperane all’ovest ( Eurasia, ibidem, p. 34): “La concezione globale del mondo moderno ( categoria negativa) come antitesi del mondo della tradizione ( categoria positiva) conferisce alla critica della civiltà occidentale un fondamentale carattere metafisico, precisando il contenuto escatologico e fatale dei fondamentali processi di ordine intellettuale , tecnologico, politico ed economico che originano dall’Occidente”.
La sfida dei tradizionalisti russi non si limita tuttavia al terreno filosofico, estendendosi a quello politico e istituzionale. Una delle rivendicazioni essenziali degli eurasisti è infatti il principio della partecipazione integrale da parte del popolo, da essi definita demotìa , termine greco affine a quello di politìa , da me usato già parecchi anni or sono ( Carlo Vivaldi-Forti, Principi di metodologia scientifica nella ricerca psicologica umanistica , ed. Thule 1983). Il richiamo esplicito è al concetto di gerarchia organica, analogamente alle visioni di Vilfredo Pareto , C. Schmitt , J. Freund , A. de Benoist, A. Moeller van der Bruck , inteso come partecipazione del popolo al proprio destino. La concezione del mondo eurasista trova inoltre rivoluzionarie applicazioni in campo geopolitico. Al posto di un pianeta egemonizzato dall’atlantismo a guida bancaria e finanziaria globale, essa ne immagina uno diviso in quattro grandi aree: quella euro-africana, comprendente l’Unione Europea , l’Africa arabo-islamica e l’Africa sub-tropicale; quella asio-pacifica, comprendente il Giappone, il Sud-est asiatico, l’Indonesia, l’Australia; quella eurasiatica , comprendente la Russia, le nazioni della Csi, i paesi islamici continentali, l’India e la Cina; quella americana, comprendente l’America del Nord, Centrale e Meridionale. Fra tutte queste si dovranno stabilire rapporti fondati su reciproco rispetto, non ingerenza, collaborazione assolutamente alla pari.
Di tali considerazioni dovremo fare tesoro per le nostre scelte future, di politica interna e internazionale, in nome della nostra stessa sopravvivenza.
Carlo Vivadi-Forti
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