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Sergio Ermotti in Consiglio federale? Così la pensa Tito – di Gianfranco Soldati

Attenzione! Articolo del 3 ottobre 2015

Ne approfittiamo per ricordare il nostro grande amico, che ci ha lasciato quasi un anno fa.

Tito Tettamanti in un suo recente scritto ha proposto Sergio Ermotti, CEO dell’UBS, come futuro e prossimo Consigliere federale del Ticino. Ermotti è un “self made man” che dal basso ha scalato un albero la cui cima sembrava esclusivamente riservata alla cricca degli gnomi zurighesi. Da questo punto di vista merita tutta la nostra ammirazione.

Già nello scorso febbraio Roger Köppel, editore e caporedattore della “Weltwoche” gli aveva dedicato un editoriale in cui riconosceva il coraggio e la chiaroveggenza del nostro concittadino. Nessuno, scrive Köppel, si aspettava che il capo dell’UBS potesse rivolgersi al CF e ai partiti cosiddetti “borghesi”, con un articolo apparso sui 3 maggiori quotidiani delle 3 lingue nazionali più importanti, richiedendo una guida meno traballante a Berna, una maggior collaborazione tra i suddetti partiti, meno regolamentazione finanziaria, meno tasse e meno sovraccarichi per le imprese. Riuscendo così ad irritare le sinistre e in particolare la Giuda in gonnella, nostra beneamata ministra delle finanze. Sono sempre più rari gli uomini ai piani alti di finanza e industria che osano avventurarsi nell’arena politica, Ermotti è un’eccezione e Köppel glie ne dà merito.

Naturalmente il “grande capo” UBS ha parlato anche “pro domo sua”: strategìa del denaro pulito, schock dell’abolizione del cambio fisso euro-franco, imposizione di un capitale proprio più elevato di quello richiesto alla concorrenza internazionale da parte della commissione Brunetti e della Finma e per finire l’imposizione decisa motu proprio dal presidente della BNS Jordan del tasso di interesse negativo rendono sempre più difficile la gestione positiva della massima banca svizzera. Ma Ermotti ha sicuramente ragione, scrive ancora Köppel, quando attacca l’erosione continua della sicurezza del diritto dovuta soprattutto, questo lo aggiungo io, ai cedimenti continui della ministra delle finanze di fronte alle imposizioni da parte degli USA.

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L’uomo più religioso che abbia conosciuto in Ticino si diceva che fosse libero pensatore e ateo convinto. Il suo culto indefettibile andava al Dio Stato. Sto parlando di Argante Righetti, statalista feroce, totale e assoluto, ma in fin dei conti da tutti rispettato per l’indiscutibile integrità morale. La convivenza civile senza organizzazione statale, di tipo democratico, monarchico o anche dittatoriale, tramuta inevitabilmente in anarchia. La potestà statale per realizzarsi necessita della burocrazìa, che però ha il difetto congenito di tendenzialmente proliferare e prevaricare, sempre più fine a se stessa. Finisce così che lo Stato, tramite la sua burocrazìa, ci opprima con imposte, ordinamenti, controlli, prescrizioni, tasse, balzelli varii, multe e contravvenzioni, per non parlare delle restrizioni della libertà individuale. Lo Stato è creazione umana, e non merita quindi l’adorazione di cui lo fanno oggetto gli statalisti alla Righetti.

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Arturo Marcionelli di Bironico è stato ambasciatore nell’ex Congo belga, divenuto Zaìre dopo la presa del potere di Mobutu, poi a Teheran, ai tempi di Reza Pahlevi. A lui mi legano molti ricordi, un suo fratello Gualtiero essendo stato mio zio acquisito. Finì la carriera diplomatica come console generale a Milano. Il 26.11.1965, all’indomani del colpo di stato di Mobutu, divenuto poi Mobutu Sese Seko e celebre tra l’altro anche per l’immancabile copricapo in pelle di leopardo con tanto di coda. l’ambasciatore trasmise un puntuale e lucidissimo rapporto al CF, prevedendo con stupefacente lungimiranza quella che sarebbe stata l’evoluzione degli avvenimenti. Un paese enorme, dotato da madre natura di tutte le possibili ricchezze minerarie e territoriali, lasciato dalla potenza coloniale belga senza un minimo di struttura statale e quindi destinato alla dittatura o all’anarchia. Il popolo congolese subì, dopo il fallimento di Patrice Lumumba, voluto dalle potenze occidentali, l’una e l’altra. E ancora adesso non trova pace.

In Persia, adesso Iran, Marcionelli rappresentò la Svizzera, come ho ricordato, ai tempi dell’imperatore Reza Pahlevi, un megalomane smisurato. Il protocollo di corte era del tipo Luigi XIV. A Capodanno l’imperatore riceveva personalmente tutto il corpo diplomatico accreditato. Obbligatorio un regalo, di un valore in dollari prescritto: per la Svizzera 5’000 dollari, per la potenza massima, gli USA, 50’000, e così via a seconda del peso politico ed economico del paese rappresentato. In compenso gli ambasciatori ricevevano una fotografia dell’imperatore con firma autografa del monarca e una confezione del prelibato e altrimenti introvabile caviale grigio della riserva imperiale: per la Svizzera 100 grammi, per gli USA una scatola da 1 Kg. Il nostro ambasciatore, a quei tempi modestissimamente stipendiato, durante il suo soggiorno in Persia potè però acquistare, consigliato da esperti autoctoni, una quantità di pregiati tappeti persiani per sé e per il parentado, a prezzi da mercato delle pulci.

Ritornato in patria, l’ambasciatore (“Botschafter” in tedesco, niente a che vedere con “Boot” che significa barca o battello, né con “schaffen” che significa lavorare) dovette rinnovare il permesso di circolazione, scaduto da tempo. Ricevette il prezioso documento con tanto di nome e cognome, data di nascita e indicazione della professione: barcaiolo. Un aneddoto raccontato anche da Romano Amerio nel suo Zibaldone.

Gianfranco Soldati

 

Relatore

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