“La crisi del liberalismo; un liberalismo svuotato”
“Il liberalismo ha avuto un tracollo sulla sua destra conservatrice, ha perso ogni riferimento ai valori borghesi”
Nemmeno il Ticino può fare come se niente fosse. Nemmeno il Ticino può pensare di schivare l’oliva e fare politica economica o altra senza farci i conti. Il popolo europeo sta votando a destra, sta eleggendo persone di destra e si aspetta soluzioni di destra. Basta paragonare le cartine elettorali dell’Europa di ieri (10 anni fa), di oggi e delle previsioni; dalla Scandinavia alla Grecia e dal Portogallo agli Urali. E’ un bene, è un male ? Dipende. Prima osservazione. La destra si sta affermando non perché la sinistra ha fallito, ma perché il liberalismo sta battendo in ritirata. La crisi nostra culturale, economica, sociale è la crisi del liberalismo; un liberalismo svuotato. Il liberalismo sta pagando a caro prezzo l’essersi per molti decenni identificato unicamente con l’economia diventandone il difensore a prescindere. Di questi tempi il capitalismo ha detto addio al liberalismo non avendone più bisogno, se ne è servito, l’ha lautamente pagato ma alla fine l’ha abbandonato. Il liberalismo post 1989 ha peccato di ingenuità credendo che assieme al muro economico fossero cadute le visioni e gli approcci illiberali anche nei campi non economici della politica. Campi dimenticati e lasciati “alle concorrenze politiche” da troppo tempo (scuola, sociale, giustizia, istituzioni, esteri). Il liberalismo ha avuto un tracollo sulla sua destra conservatrice, ha perso ogni riferimento ai valori borghesi aprendo le sue mura alle invasioni barbariche e non barbariche delle destre. I liberali hanno perso il significato e ancora di più hanno perso la capacità di tradurre in azioni politiche i concetti di: parsimonia, frugalità, decoro, prudenza, moderazione, benevolenza, coraggio, speranza, iniziativa e religiosità. Hanno buttato nei rifiuti ingombranti la famiglia come motore educativo, l’azienda come generatrice di lavoro, il mercato come scambio pacifico e hanno caricato lo stato fino a farlo piegare su sé stesso di compiti e aspettative salvifiche di ogni genere. Il liberalismo ha tollerato l’esplosione dei diritti senza doveri e delle libertà senza responsabilità. Si è messo a esercitare e imporre il potere statale anziché controllarlo. Le destre stanno occupando questi temi abbandonati; il problema enorme dell’immigrazione non fa che mettere in luce e drammaticamente in risalto questi vuoti liberali. Ci sono però destre e destre, e prima che sia tardi è bene distinguerle. Ci sono, per semplificare tre tipi di destre. La prima funziona di cervello, è razionale liberale si caratterizza per: individualismo, libero mercato, valori non negoziabili, sovranità del diritto nazionale, unisce libertà-responsabilità-diritti-doveri, diffida e controlla il potere statale, governa le diversità, è inclusiva. La seconda funziona di cuore, è affettiva e conservatrice si focalizza su: patria-popolo, tradizione, identità, regole chiare e ordine, esercita il potere, minimizza le differenze, è esclusiva. La terza funziona di pancia, è reazionaria e autoreferenziale: nazionalista-razza e classista, statalista, dirigista, protezionista, parziale, selettiva, privilegiata, irrequieta, impone il potere, elimina le diversità è isolazionista. La terza destra è semplice da capire, affascina chi ha da tempo nulla da perdere e chi ha paura di perdere prossimamente quel poco che ha, ed è quella che in questo momento fa parlare di più e riceve più credito. Avanza un mix di successo tra la terza e la seconda destra, mentre la prima che si trova a cuscinetto tra il liberalismo spento e questo mix, e che sarebbe la speranza, è a rischio. E’ snobbata e dimenticata dai partiti centristi che le stanno a sinistra e che smarriti non fanno più politica ma amministrano, distribuiscono il potere; da destra è attaccata da quel mix di cui sopra che la vuole schiacciare con la politica populista. Cioè statalista e nazionalista e incamminarsi alla conquista del centro amorfo, annoiato, grasso, lento, pigro, anonimo, svogliato, appagato, qualunquista, cinico, nichilista e clientelare.
Sergio Morisoli, presidente AreaLiberale, granconsigliere
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Post di extraverbo pubblicato (per problemi tecnici imprecisati) da Jack the Ripper II.
L’ostinarsi a far discorsi astratti sul liberalismo dimenticando la realtà nella quale i giochi si svolgono, si corre il rischio di restare accademici. Di proporre categorizzazioni filosofiche. Il discorso sulle tre destre è troppo schematico per poterlo apprezzare. So di usare un approccio provocatorio. Quello che è determinante, a mio parere, è lo scenario nel quale si è immersi oggettivamente, concretamente.
La globalizzazione ha causato un trasferimento di ricchezza dai paesi occidentali a quelle poche altre realtà oggi emergenti, soprattutto grazie allo sfruttamento della loro manodopera. Ha permesso una minima crescita laggiù è ha sicuramente impoverito una grossa fascia di popolazione quaggiù: un esercito di schiavi che produce per un esercito di disoccupati. Ciò ha arricchito sfacciatamente una ristrettissima parte di addetti, ha fatto crescere il divario tra benestanti e indigenti e ha sfasciato la classe media. In altri termini ha costruito l’imperativo della crescita economica a solo beneficio di una minoranza aleatoria. Un paradigma ideologico unilaterale: un’arbitraria visione di progresso.
La globalizzazione è, e rimane, una proposta utopica (nel senso etimologico: utopia quale aspirazione ideale non necessariamente realizzabile) che si è imposta come narrazione egemone. Le liberalizzazioni neo-mercantili mondializzate non sono il progresso. Sono il risultato di un’impostazione economica che fonda le proprie radici nel liberalismo dell’elusione fiscale. Il liberalismo che sostiene la mondializzazione (uno dei due (o dei tre) dell’articolo, non mi importa nemmeno sapere quale) si è imposto in modo autoritario, portando con sé un’indubbia precarietà, una diffusa disoccupazione e un evidente sfruttamento. Tenta di abbattere ogni tutela culturale, sociale, giuridica e legale. Protegge i forti, cosicché, facilitati nel disporre dei deboli. Un neo-mercantilismo che ha radicalmente sostituito il modello culturale della conciliazione (troppo lento, tempi lunghi, fatto di compromessi tipici della concertazione democratica) con quello della competizione: immediato, istintivo, unilaterale, brutale. La selezione naturale.
Certo, il cosiddetto liberal-socialismo o socialismo-liberale dei riformatori socialdemocratici della terza via alla Blair, hanno assecondato questo disegno di società delle disuguaglianze, tirando fuori la favola della meritocrazia. Una delle molte narrazioni inventate dai privilegiati per far credere che il… privilegio sia il risultato di un merito. Un pericoloso mito ideologico. In molti sembrano crederci perché, in codesto racconto, si contrappone furbescamente (al concetto di merito) la pratica diffusa del nepotismo. Un confronto ingannevole. Perché l’uno non evita l’altro e inoltre non esclude, soprattutto, una malcelata forma di “eugenetica” sociale. (Forse lì intravvedo il grande fallimento “dell’internazionale socialista”).
A queste odierne orazioni globalizzanti concorrono i media, la politica e i politici, la grande finanza, le holding transnazionali, i governi più o meno democratici, la cultura più o meno elitaria. Per usare un termine inflazionato: l’establishment. Che dire poi del liberalismo di stato. Chi non si ricorda dei campioni della “società che non esiste… dello Stato che non è la soluzione, addirittura era… il problema”: slogan libertari al limite del gioco anarchico. I Reagan/Thatcher grandi e piccoli degli anni del ruggente turbo-liberismo poi diventati acclamati… statisti. Così come molti statal-burocrati nostri contemporanei, per nulla infastiditi dalla evidente ubiquità ideologica nell’essere anche convinti libertari. Ecco fors’anche perché, probabilmente, oggi assistiamo al fatto che una sempre meno praticabile giustificazione di questa… illusione narrativa, sia diventata determinante per innescare quel fenomeno reattivo che ha portato alle ormai fatali scelte “populiste” della Brexit, del trumpismo: del cosiddetto sovranismo.
Più semplicemente oggi ci si chiede che rapporto abbia il social-liberalismo delle nostre socialdemocrazie, con un vero sviluppo economico democratico. Fatti incontrovertibili ci indicano che alcuni regimi non propriamente democratici si adeguano benissimo al libero mercato e si constata pure che nella grande impresa capitalistica il ruolo dell’imprenditore, creativo e diretto all’innovazione, viene sempre più insidiato da una pressione monopolista. A quel punto, una qualsiasi forma di libertà imprenditoriale dovrà fare i conti con un capitalismo per gruppi egemoni.
Siamo nel bel mezzo di un processo non così repentino, (come profetizzato dai marxisti, anche se…) ma per mezzo un incessante incedere, anche attraverso farraginose vie parlamentari e con un frastornante sostegno mediatico. Darà probabilmente vita ad un sistema mercantile ristretto, abbastanza incompatibile con i ponderati processi democratici. Un sistema perennemente conflittuale in una società sempre più povera e controllata. Un mercato planetario gestito da oligarchie d’azionariato: una forma protezionistica per eccellenza imposta dal capitale multinazionale unificato che saprà, attraverso un chiaro rapporto di forza, sostituirsi ad ogni eventuale iniziativa tentata dagli outsider. Dall’utopia libertaria al totalitarismo dei mercati.