ANCHE I TELAI A VAPORE, DUE SECOLI FA, VENNERO ACCUSATI DI CAUSARE DISOCCUPAZIONE, MA COLORO CHE AL SEGUITO DI NED LUDD DISTRUGGEVANO LE NUOVE MACCHINE NON FACEVANO UN BUON SERVIZIO AL LORO PAESE, E NEPPURE AI LAVORATORI DEL SETTORE
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NOTA (fdm). Alcuni passi di questo notevole articolo hanno suscitato la mia perplessità, in particolare l’affermazione “i flussi migratori in entrata che salvano il sistema previdenziale dal collasso” e consimili. La salvezza portata dall’Africa alla fatiscente Europa! Ma com’è possibile non considerare le conseguenze devastanti dell’immigrazione selvaggia sul nostro tessuto sociale?
Per avere un parere estremamente autorevole mi sono rivolto all’avvocato Tito Tettamanti, che segue con interesse il discorso di Ichino e, a suo tempo, aveva manifestato l’intenzione di invitare il Senatore a un convegno sui problemi del Lavoro, che ebbe luogo a Lugano (il suo desiderio poi non si potè realizzare).
Tito Tettamanti, da me sollecitato, mi ha risposto così:
“Pietro Ichino è un giuslavorista molto competente e che ha avuto il coraggio di staccarsi in dissenso dalla CGL (di cui era uno degli alti dirigenti) e di avere una posizione spesso indipendente nel partito della sinistra. L’analisi nella prima metà è condivisibile, nella seconda metà discutibile, ma in questo momento di confusione non totalmente folle. Mala tempora currunt… Auguri di buon lavoro.”
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Una lettrice scrive al Senatore
Caro senatore, […] sarà anche vero che, come lei ama spesso sottolineare, la globalizzazione ha fatto di più per sconfiggere la fame nel mondo di quanto hanno fatto negli ultimi due secoli tutti i movimenti sindacali, socialisti e comunisti. Però nei paesi sviluppati come il nostro ha portato la disoccupazione, o l’impoverimento dei lavoratori. E alle elezioni votano gli italiani, non gli indiani, i cinesi, gli africani o i sudamericani che possono stare oggi meglio rispetto a cinquant’anni fa. […]
Roberta Chiaraviglio
Anche i telai a vapore, due secoli fa, vennero accusati di causare disoccupazione; ed effettivamente qualcuno perse temporaneamente il lavoro nell’immediatezza dell’introduzione di quelle nuove macchine. Ma coloro che, al seguito di Ned Ludd, si proponevano di distruggerle non facevano un buon servizio al loro Paese e neppure ai lavoratori del settore. Così come l’incessante progresso tecnologico negli ultimi due secoli non ha affatto prodotto una riduzione dell’occupazione nei Paesi che ne sono stati investiti, allo stesso stesso modo non l’ha prodotta l’incessante aumento della mobilità delle persone, delle merci e dei capitali sul piano planetario. Entrambi i fattori producono – questo sì – la soppressione transitoria di posti di lavoro, e quindi un danno per chi li occupa, nell’immediato: il problema è dunque di indennizzare queste persone e sostenerle efficacemente nel passaggio al nuovo lavoro; ma sarebbe un grave errore di diagnosi affermare, per esempio, che l’11 per cento attuale del tasso di disoccupazione italiano sia dovuto alla globalizzazione: la chiusura delle nostre frontiere alle merci straniere non farebbe certo diminuire la disoccupazione. Tanto meno la farebbe diminuire la chiusura delle frontiere ai capitali e agli imprenditori stranieri: costituisce veramente una follia l’ostilità diffusa nel nostro Paese contro le imprese multinazionali, solo perché tali. Chi nutre questa ostilità dimentica che i dipendenti italiani di imprese multinazionali estere – per citarne solo alcune delle 13.500 per nostra fortuna operanti in Italia: la IBM, la Nuovo Pignone (che è dal 1994 lo head quarter della General Electrica nel sud-Europa), la F.C.A., la Parmalat-Lactalis – guadagnano mediamente il 50 per cento in più, a parità di mansioni, rispetto alla media dei dipendenti delle imprese indigene.
Pietro Ichino
(dal portale www.pietroichino.it)
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Non credo, a differenza di Ichino, che il tentativo di far risaltare le feroci contraddizioni della mondializzazione mercantile possa essere associato al luddismo. Piuttosto, direi, a una necessaria volontà di chiarezza. Non sono un assiduo lettore de l’Espresso, tuttavia nel numero uscito questa settimana si può apprezzare (firmato da Michel Onfray) un potentissimo j’accuse contro il sistema economico attuale. Soprattutto contro gli atroci risultati della globalizzazione così come si presenta in concreto. Mi permetto di consigliarne la lettura. È una condensata provocazione che fa scintille, e che tuttavia contiene molte verità.
Tornando alle riflessioni ichiniane, lontani, oppure vicini, dalla disoccupazione prodotta (allora) dai famosi telai a vapore, una cifra (oggi) dovrebbe spaventare gli “osservatori” della politica della vicina Penisola: il 40 per cento della gioventù italiana non ha un lavoro. Altri sono costretti a lavorare in nero, altri ancora hanno lavori saltuari e precari; resta infine una piccola minoranza che gode di una posizione di privilegio in patria, magari a milleduecento euro, oppure ha “scelto” l’emigrazione. I giovani laureati che fanno i bagagli per il Regno Unito, per la Germania, per la Svizzera, per la Francia e per gli Stati Uniti aumentano di anno in anno. Si parla di una cifra annuale vicina alle cinquantamila unità. Un’incontenibile emorragia. Certo, l’emigrazione è una faccenda nota, in determinate circostanze perfino positiva, tuttavia l’esserne costretti è la triste dimostrazione del suo aspetto coercitivo. Onfray spiega il fenomeno in termini più… convincenti.
Un’ultima cosa. La questione dell’invecchiamento della popolazione e della necessità di avere giovani pronti ad iniettare capitali pensionistici. Un problema mal affrontato che si apre a interpretazioni demagogiche. Calcoli attendibili ci parlano (con l’avvento della robotizzazione) di una continua flessione del bisogno di forza lavoro. Si parla di un terzo in meno. Quindi un terzo in più di disoccupati, più un terzo di pensionati da sfamare. Ergo, il problema non potrà essere risolto con fallaci ricette e probabilmente nemmeno con migrazioni cerotto. Diciamo parafrasando l’Onfray che chi vuole abolire le frontiere non la dice tutta, magari è un semplice trucchetto per togliere di mezzo, una volta per tutte, quello che è stato ottenuto con secoli di lotte sociali.
Confesso, ho letto l’articolo di Onfray. Sapevate che i bobos lo detestano? Tuttavia il suo articolo è micidiale. Per i più moderati, che non amano la polemica ruggente, consiglierei invece un libretto di Beck. Un condensato di saggezza e di spunti ragionativi. Il titolo dice tutto: “Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro”, sintesi tremenda. Anche se scritto nel lontano novantanove già si possono comunque incontrare scenari oggi tremendamente attuali. Lasciatemi fare almeno una citazione.
"Tuttavia la profezia, secondo cui la società del sapere aprirebbe nuove inesauribili fonti di lavoro e di produttività, non è rimasta inconfutata. Gli scettici controbattono sostenendo che la certezza, secondo cui lo smantellamento della vecchia società della piena occupazione andrebbe di pari passo con la costruzione di una nuova società della piena occupazione basata sul sapere, misconosce l’elemento radicalmente nuovo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, ovvero la possibilità di aumentare la produttività senza lavoro."
Ci si chiederà come mai non si è fatto tesoro delle riflessioni espresse già allora (millenovecentonovantanove) da chi sapeva anticipare. Dov'erano allora i paladini delle democratiche istanze politiche almeno quando le delocalizzazioni stavano spolpando le conquiste sociali indigene? Dov'era quel popolo sensibile alle ingiustizie sociali (oggi per altri motivi riversato nelle "avenues" americane) mentre si stavano conducendo i salariati alla stretta ubbidienza del pensiero unico? Già molto prima, il buon Dylan, in fondo ci aveva perfino avvertito che… the answer is blowin' in the wind.
Confesso, ho letto l’articolo di Onfray. Sapevate che i bobos lo
detestano? Tuttavia il suo articolo è micidiale. Per i più moderati, che
non amano la polemica ruggente, consiglierei invece un libretto di
Beck. Un condensato di saggezza e di spunti ragionativi. Il titolo dice
tutto: “Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro”, sintesi tremenda.
Anche se scritto nel lontano novantanove già si possono comunque
incontrare scenari oggi tremendamente attuali. Lasciatemi fare almeno
una citazione.
"Tuttavia la profezia, secondo cui la società del sapere aprirebbe nuove inesauribili fonti di lavoro e di produttività, non è rimasta inconfutata. Gli scettici controbattono sostenendo che la certezza, secondo cui lo smantellamento della vecchia società della piena occupazione andrebbe di pari passo con la costruzione di una nuovasocietà della piena occupazione basata sul sapere, misconosce l’elemento radicalmente nuovo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, ovvero la possibilità di aumentare la produttività senza lavoro."
Ci si chiederà come mai non si è fatto tesoro delle riflessioni espresse già allora (millenovecentonovantanove) da chi sapeva anticipare. Dov'erano allora i paladini delle democratiche istanze politiche almeno quando - per esempio - le delocalizzazioni stavano spolpando le conquiste sociali indigene? Dov'era quel popolo sensibile alle discriminazioni sociali (oggi per altri motivi riversato
nelle "avenues" americane) mentre si stavano conducendo i salariati alla
stretta obbedienza del pensiero unico? Già molto prima, il buon Dylan,
in fondo ci aveva perfino avvertito che… the answer is blowin' in the
wind.
Trovo la esposizione di Ichino la descrizione della metà visibile della luna ma mancante della descrizione dell'altra metà. Paragonare l'epoca dei primi telai a vapore con l'epoca della informatica, delle automazioni e della robotica a mio parere è un errore direi perfino grossolano. Se all'epoca avevano sopravvalutato la portata del telaio a vapore come potenziale concorrente dei lavoratori oggi ad accettare il punto di vista di Iachino si fa l'errore opposto e cioè si sottovaluta la portata del mix di tecnologie in campo per soddisfare i bisogni dell'essere umano nella società del consumo dicendo che non è concorrente dei lavoratori, soprattutto quelli che possono offrire solo lavoro manuale. Al tempo dei telaio a vapore c'era la lotta tra classi sociali, all'interno di ogni Nazione, che stavano alzando la piramide sociale stratificando la middle-class che fu fondamentale nel trainare i consumi di quel che si produceva. Al tempo di internet, automazioni, robotica e globalizzazione la dinamica è completamente differente. Tutto da vedere con dati alla mano che la globalizzazione abbia diminuito la fame e povertà del mondo, sono enunciati facili da affermare ma non altrettanto da dimostrare ed assumerla come verità è la genesi di ragionamenti errati. La conclusione a riguardo della perdita di 300mila indigeni a favore degli immigrati dovrebbe far riflettere sul perchè se ne vanno e non assumerlo come motivo che giustifica la necessità di immigrazione. Non confondiamo causa con effetto ! Inoltre che gli immigrati contribuiscano alle casse pensionistiche è una grande distorsione alla realtà che è fatta di immigrati che vengono mantenuti dalle casse sociali che hanno costruito ... forse quei 300mila che lasciano il proprio paese che un tempo dava loro benessere ? Entrare in una analisi di dettaglio in questo contesto non è possibile e non la si risolve con un commento perchè richiederebbe ben più spazio però qualche sintesi da lasciare sul tavolo della discussione e che potrebbe far riflettere si può certamente fare. La prima è che "l'artigianato crea posti di lavoro e la automazione industrializzata crea disoccupazione" la seconda è che "la globalizzazione è come Robin Hood, va a produrre dove ci sono i poveri migliorandone poco alla volta la economia e va a vedendere dove ci sono i ricchi peggiorandone poco alla volta la economia" la terza è che "se prima classi povere e ricche erano una realtà che doveva gestire e cercare di risolvere ogni governo di ogni paese, oggi la gestiscono le Corporations mondiali che decidono a quali paesi portare lavoro ed economia e a quali sottrarre lavoro ed economia e per far ciò si sono impossessati della politica e della finanza per farlo". Buona giornata