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L’eroico tentativo di Fabio Pontiggia

Scrive il direttore del Corriere del Ticino nel suo editoriale del 24 marzo:

“[…] Con questo rischio dovremo purtroppo convivere a lungo. Possiamo invece, e anzi dobbiamo, neutralizzare un altro rischio per la nostra civiltà infiltrata e insidiata da queste cellule di barbarie: quello della frattura tra noi e loro. Loro intesi come i residenti musulmani (molti nati e cresciuti in Europa) che rifiutano la lettura integralista e violenta del Corano. È un discorso sempre più difficile da affrontare. Ma va fatto, perché il vero obiettivo del terrorismo jihadista è impedire l’inserimento e l’integrazione delle persone normali di fede musulmana nel nostro modello di società. L’adesione all’Occidente quale patria in cui il musulmano possa vivere, studiare, lavorare, fare famiglia, divertirsi, senza problemi di coabitazione con i non musulmani, accettando le nostre regole e rispettando i nostri valori (e magari facendoli propri), sarebbe la sconfitta politica e sociale del jihadismo.”

Parlo di tentativo “eroico” perché tutto, ma proprio tutto, sembra condannarlo all’insuccesso. Certe perorazioni assumono oggi l’aspetto di pure esercitazioni retoriche (delle quali, beninteso, rigurgitano i media e il web). 

NOTA. La parentesi “magari facendoli propri”… è veramente audace, un ardito passaggio da rullo di tamburi. Noi siamo sì sconvolti e affranti ma non dobbiamo perdere il senso della realtà.

* * *

C’è un altro punto, diverso, idealmente privo di kamikaze e di assassini fanatici, che voglio evocare. Quello di un’Europa popolata di decine di milioni – ma non sarebbe assurdo pensare a centinaia di milioni – di musulmani moderati. Domanda. Potrà essere questa la nostra salvezza? Risposta. Indubbiamente sì, poiché essi sarebbero – nell’ipotesi assunta – moderati.

Tale è, mi azzardo a dire, il Pontiggia-pensiero e, un po’ più in alto, il Francesco-pensiero, dove per “Francesco” non si deve intendere il redattore di Ticinolive bensì il Rinnovatore della Chiesa di Pietro.

Relatore

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  • Quando si affondano le mani dentro questi argomenti, chiunque lo faccia, si espone a dei notevoli rischi. Pur tuttavia ci capita di leggere e di ascoltare, spesso di dover subire le voci più o meno ufficiali, ad ogni livello: mondiale, continentale, nazionale, giù giù fino ad arrischiati componimenti elettorali e cinguettii impazienti. Poi ci sono dei tabù, oppure il rischio di non riuscire ad esprimere esattamente ciò che si vuol dire, con l’eventualità di essere fraintesi. Infine c’è un istintivo senso di rispetto profondo e sincero nei confronti delle vittime che subordina il desiderio di scrivere, di esprimere la propria opinione al punto di immobilizzarti nella condizione di spettatore silente. Non è che star zitti sia meglio che parlare. E pure viceversa. È una questione soggettiva, personale.

    Ciò che rimane di tutta questa terribile faccenda è soprattutto la scoperta di un tessuto sociale dualista che da una parte parla - in termini soprattutto economici - di necessario, inevitabile “nomadismo interculturale” (un nomadismo dall’alto) predicato da una nuova categoria di ‹agenti› incaricati di veicolare il sogno di una iperclasse globalizzata e felice, ben retribuiti diffusori di uno strategico ‹migrazionismo› - per il momento e purtroppo - esclusivamente funzionale al dumping sociale.

    Quindi l’imprescindibile compito complementare, di nascondere la pauperizzazione di uomini e cose resi inadatti alle nuove strategie liberiste. Così ti ritrovi davanti a contesti spesso funzionali al lavoro nero, alla manodopera gratuita, in un bricolage di schiavitù pronta all’uso. Mondi autonomi, dentro i quali è nata nel tempo (anche) la radicalizzazione di alcuni, forse molti, sicuramente troppi giovani senza futuro. Ma la storia è lì a rendere evidente come ciò sia già ‹tranquillamente› accaduto, proprio perché la cronaca ci racconta, ogni giorno, quanto codesta “identità perversa” di tanti giovani pronti ad abbracciare il “male” la si ritrovi in contesti tremendamente noti. Le mafie, per esempio, arruolano molti ragazzi e li condiziona a tal punto da trasformarli in professionisti del crimine: sicari di professione a vent’anni. Quotidianamente, nella quasi assoluta omertà.

    Da qui la subdola accettazione generalizzata dell’esistenza di logiche di sopravvivenza tragicamente desolanti, proprio in quei trascurati territori necessariamente segregati dentro invalicabili muri sociali. Dei veri e propri stati nello Stato impudentemente definiti quali… “ambiti di fragilità economica”. Più concretamente: micidiali bacini d’utenza, cittadelle autarchiche con rituali che sfuggono al nostro controllo. Lì, da quelle parti probabilmente, ci sta il tremendo fallimento civile contemporaneo. Purtroppo per tanti, anzi per molti, è meglio lasciare che l’ impulso primario indichi il dito senza doversi chiedere dove sia la luna.

  • Come si potrebbe non condividere quello che scrive "inaltreparole" con parole che, mi sembra, più aderenti alla realtà, nostra e degli asilanti, non si può?

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