(prima parte)
Stamm inizia con una premessa: dopo il fatidico no popolare all’adesione allo SEE del 6 dicembre 1992, la Svizzera scelse la via dei trattati bilaterali. Anche se il consigliere federale Jean-Pascal Delamuraz aveva subito parlato di “domenica nera” (e Mario Botta si era sentito “morire dalla vergogna”), da quella data il Governo non ha mai smesso di vantare la bontà di questa scelta. Un trattato bilaterale è un accordo negoziato tra due parti di pari dignità, e tutta la storia delle relazioni internazionali della Svizzera, da oltre 700 anni, non è altro che una serie infinita di trattati bilaterali. La domanda cruciale da porsi nel caso dei trattati bilaterali con l’UE, così come propagandati da Governo e Camere, è questa: sono trattati che non ledono la sovranità e indipendenza nazionali o trattati intesi a integrarci surrettiziamente nell’UE?
I primi dubbi sulla correttezza del Governo sorsero poco tempo dopo il chiarissimo no popolare, quando a negoziare i trattati bilaterali I fu scelto dal CF proprio l’ambasciatore Jakob Kellenberger, un diplomatico che nella campagna dell’autunno 1992 si era messo in grande evidenza come convinto sostenitore dell’adesione all’UE. L’UDC, che aveva sostenuto da sola il rifiuto dell’entrata nella CEE (primo passo per l’integrazione pura e semplice, aveva proclamato l’astutissimo Adolf Ogi), protestò invano: inviare a trattare Kellenberger era come se l’associazione dei macellai svizzeri avesse scelto un vegetariano per difendere i suoi interessi.
Il comportamento degli altri partiti nazionali fu qualcosa di stupefacente. Nell’agosto 1995 l’assemblea dei delegati PLR, riunita a Interlaken, si espresse in favore del “mantenimento della meta strategica dell’adesione all’UE”. Nell’aprile 1998 i delegati PPD riuniti a Basilea si adeguarono alla scelta liberal-radicale con 411 sì e miseri 38 no. Prima delle elezioni parlamentari federali del 1999 la NEBS (Neue Europäische Bewegung Schweiz, NUMES in italiano, attualmente presieduta da Jacques Ducry, il socialista indipendente, da chi non si sa, più votato in Ticino) interrogò tutti i 2931 candidati alle Camere. Un fantastico 98% dei candidati PS, un pregevole 82% dei PPD e un rassicurante 75% dei PLR si pronunciarono per l’adesione all’UE (gli aggettivi di questa frase vanno intesi in senso ironico). La NEBS credette di poter cantar vittoria, incurante della volontà popolare, a quel tempo già chiarissima e poi sempre confermata in tutte le votazioni. Tra il 1999 e il 2003 nella Camere sedettero solo 2 deputati romandi e solo 3 donne che nel sondaggio indetto dalla NEBS si erano espressi contro l’adesione.
Le grandi banche, il mondo dell’economia, i rappresentanti della cultura, la grande maggioranza dei professori universitari, i manager delle FFS, delle PTT, della grande casa editrice Ringier, del “Tages Anzeiger”, delle televisioni e radio di parastato, tutti erano chiaramente favorevoli all’adesione incondizionata. Ma più grave era in quegli anni il fatto che il CF fosse disposto a rinunciare alla nostra democrazia diretta per sottometterci al diritto europeo. Un CF che del resto aveva già proclamato il suo intento di condurci (Delamuraz lo confermò la sera del 6 dicembre 1992)) in grembo all’Europa il 21 ottobre 1991 e poi il 18 febbraio 1992. Nel suo “Rapporto sull’integrazione” del 3 febbraio 1999 il CF, reso miope dall’euroforia della maggioranza dei suoi membri, ebbe il coraggio di scrivere (“verba volant, scripta manent”) che l’adesione all’UE avrebbe “rafforzato l’indipendenza della Svizzera”. Solo persone altamente disinibite possono arrivare a contorcere a tal punto il significato della parole così come sono codificate nei vocabolari. (“Tantum potuit rerum publicarum passio suadere malorum” scriverebbe Tito Caro Lucrezio, se fosse ancora vivo).
Gianfranco Soldati (continua)
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