Il fondo di Juncker è concettualmente e strutturalmente errato
Pubblicato nel Corriere del Ticino e riproposto con il consenso dell’Autore
“Riconoscere l’utilità e la funzione sociale degli imprenditori”. Queste parole non sono certo nuove sulla bocca del finanziere e “maître à penser” del liberalismo Tito Tettamanti. Quando gli stessi sono trattati dalla vox populi da voraci approfittatori (nel caso migliore) o da gangster tagliagole (nel peggiore).
Un’altra costante di Tettamanti è la critica – motivata, intensa – all’Unione Europea e alle sue politiche. L’UE nostra “croce e delizia” diremmo con il cigno di Busseto. Da un lato non possiamo farne a meno (ne siamo circondati); dall’altro subiamo giorno dopo giorno angherie terrificanti. Sentita sul bus n° 3 (pensilina Botta —> giardinetti di Besso —> Breganzona: “Questo dannato euro alla fine ci manderà in malora”. Detta da un semplice, i cui titoli accademici non possono competere con quelli del dr. Tettamanti.
Adesso gli lascio la parola perché ho un lavoro urgente da fare: debbo calcolare le mie perdite. Non sono tantissimi zeri (non ce la faccio)… ma perdiana! sono sempre troppi.
Nel 2004 Barroso, appena nominato presidente della Commissione europea, si buttò a capofitto nella realizzazione del programma di Lisbona per «un’Europa dell’innovazione e del sapere». Nel 2005 venne fissato al 2010 il traguardo per una società europea dell’informazione atta a garantire sviluppo e occupazione. Mete erano tra l’altro il pieno impiego, un miglior equilibrio tra le economie delle diverse regioni europee e, udite udite, fare dell’UE entro quella data (2010) la regione economica del mondo più concorrenziale e dinamica. Non vogliamo infierire e ci fermiamo qui. Comprensibile che del programma di Lisbona e dei traguardi da raggiungere nel 2010 nell’UE nessuno parli più.
Anno 2014, nuovo presidente della Commissione europea (Juncker) e nuovo proclama. Stavolta viene a rullo di tamburi annunciata la strategia per il rilancio dell’economia dell’UE in piena crisi. Verrà istituito un fondo per investimenti strategici (EFSI – European Fund for Strategic Investment) che investirà su tre anni 315 miliardi di euro. Per mettere le cose nella giusta luce, la somma corrisponde a meno dell’1% del PIL degli Stati dell’UE. Anche la conseguente sperata creazione di un milione di posti di lavoro ben venga, ma non può far dimenticare che i disoccupati nell’UE sono 25 milioni.
La proposta Juncker è errata concettualmente e nella struttura. A proposito della struttura, 5 miliardi di euro li mette la Banca europea per gli investimenti (BEI), 16 miliardi perverrebbero da fondi dell’UE. Il totale di 21 miliardi permetterebbe alla BEI di prestare alla nuova struttura EFSI 63 miliardi di euro e partendo da qui si dovrebbe riuscire a raccogliere (così si spera) l’importo mancante di oltre 200 miliardi da investitori istituzionali e privati, ai quali verrebbero offerte non meglio precisate garanzie.
Non vi sembra un giochino di cui abbiamo già sentito parlare nel 2007/2008 quando costruzioni finanziarie simili, azzardate e basate su una montagna di debiti con livelli di garanzia diversi, sono crollate fragorosamente? Vi ricordate l’indignazione per i subprime e per banche il cui bilancio era fragilizzato dalla infima percentuale di capitale proprio? Non erano quelle le espressioni del deprecato capitalismo sfrenato e inaccettabile che avrebbe creato perdite astronomiche per gli investitori? Sì, ma non dimentichiamo che gli animali sono tutti uguali, però alcuni più uguali degli altri. Lo Stato può ad esempio tranquillamente fare ricettazioni (vedi dischetti fiscali) che, se venissero compiute da un privato cittadino, comporterebbero la galera.
Ma sorge spontaneamente un’altra domanda: Juncker parla anche di investimenti nella formazione (giustissimo) e vuole dare computer agli allievi di Salonicco (bravo), ma così facendo, chi produce i redditi necessari per pagare interessi che siano attraenti per gli investitori privati? Se si tratta di infrastrutture, tenuto conto dei tempi per progettazione, appalti, approvazioni di vario livello, non vi è il pericolo che prima di iniziare i lavori e conoscendo i tempi della burocrazia il triennio sia già passato?
Il progetto è concettualmente sbagliato perché, come sempre, i tecnocrati pensano che fatto un piano e trovati i soldi (degli altri) tutto non possa che funzionare nel migliore dei modi. Da anni qualificati economisti ci dicono che altre sono le vie del rilancio, raccomandando di alleviare le tasse dei ceti medi, i più tartassati ma anche i più inclini ad aumentare, potendolo, i propri consumi. Da anni si suggeriscono misure che incentivino gli investimenti e modernizzino leggi sul lavoro antiquate che penalizzano la creazione di nuovi posti. Ma in questi discorsi si dimentica purtroppo una componente essenziale per un vero rilancio. Gary Becker, Deirdre Mc- Closkey, Bruno Frey, per citare alcuni eminenti economisti, sottolineano nei loro studi come l’imprenditore non sia motivato esclusivamente da considerazioni prettamente economiche.
Se vogliamo un vero rilancio, dobbiamo coinvolgere gli imprenditori, riconoscendo la loro utilità e funzione sociale. A tal fine bisogna ridare dignità al profitto e al relativo indispensabile ruolo. Un diffuso atteggiamento di diffidenza verso chi intraprende come pure il costringere ad un’estenuante corsa ad ostacoli tra difficoltà burocratiche, incertezze di strabordanti regolamentazioni, fantasie e pregiudizi di una fiscalità affamata porta molti alla desistenza. Al posto di proclami e castelli di carte (di debiti) ridiamo dignità all’imprenditore e al profitto. È l’olio senza il quale il motore dell’economia non funziona come dovrebbe.
Tito Tettamanti