Il tratto comune di tutte queste realtà è che sono il risultato di unioni politiche quasi mai volontarie, spesso frutto di guerre e stravolgimenti politici su scala continentale. Paradossalmente, quasi tutti accorpati con l’argomento nazionalista (spagnolo, italiano, inglese) che proprio oggi anima invece la volontà di autodeterminazione. Quella che stiamo vivendo è probabilmente la dinamica più progressista della storia recente.
L’economista istituzionale tende a dire che, in materia di Stati, piccolo è bello, e più piccolo è ancor meglio. Lo sanno bene gli svizzeri, che possono scegliere tra 26 cantoni e quasi 3’000 comuni, ma ancor più i cittadini di Monaco, Andorra, Liechtenstein, San Marino, ecc. E lo sapeva bene anche Goethe, che avversava l’unificazione tedesca ben sapendo che la poliedricità all’interno del Sacro Romano Impero aveva creato un’incredibile ricchezza culturale ed economica.
Va concesso che grandi Stati hanno il vantaggio di creare al loro interno un vasto mercato unico non intralciato da dazi e regolamentazioni protezionistiche. Tuttavia, a tal fine non serve un grande Stato, bensì una semplice politica economica di apertura e abolizione tariffale. Quella chiamata “laissez-faire, laissez-passer”, o liberismo. Storicamente poi, i vantaggi di un mercato nazionale unico soccombono progressivamente alla bulimia fiscale. Erano meglio i dazi di un tempo tra gli Stati della Penisola o la tassazione predatoria di oggi? Inoltre, mai un piccolo Stato potrebbe veramente praticare una politica protezionista senza rischiare la propria vita a breve termine: vi immaginate Monte Carlo che pretende l’autarchia alimentare ed il blocco delle frontiere?
La chiave di volta per comprendere tutto ciò sta nel fatto che l’ingordigia fiscale e la mania regolatoria non sono un incidente storico, bensì il risultato naturale e prevedibile dello Stato, un’agenzia che produce servizi sottraendo ai propri “clienti” le necessarie risorse, senza possibilità d’appello tranne l’emigrazione in un altro Stato. I politici svizzeri non sono più capaci di quelli altrove, ma solo soggetti a maggior concorrenza istituzionale.
Ben venga quindi un’Europa fatta di tante Catalogne, tanti Veneti, tanti Liechtenstein. Proprio l’assetto che non a caso nel Medioevo soffiò l’aria di libertà decisiva per il decollo europeo nei secoli seguenti. Piccolo è bello, ma soprattutto chi è piccolo deve rimanere forzatamente libero, rispettosamente aperto agli altri, e finanziariamente diligente. C’è solo da sperare in una transizione pacifica, che sarà probabile se consideriamo l’attuale sviluppo economico nelle regioni menzionate sopra, ma non scontata alla luce del canto del cigno dei grandi Stati nazionali e della violenza che ne potrebbe scaturire quando non v’è più nulla da perdere.
Paolo Pamini, AreaLiberale e Liberales Institut
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Un articolo che tutti gli aventi diritto di voto e quelli che lo otterranno in un prossimo o lontano futuro dovrebbero leggere e poi rileggere. Con questa aggiunta: "conditio sine qua non" per i piccoli stati al fine di preservare la propria indipendenza, la propria sovranità e la propria dignità è quella di essere governati da uomini che hanno piena coscienza di quanto esposto da Pamini, che non conosco ma con il quale mi complimento vivamente. Non da adepti della politica della fermezza nel cedimento, come i 6 su 7 che abbiamo adesso a Berna, vogliosi di disciogliere un piccolo Stato indipendente, sovrano e degno in una mostruosa UE, frutto marcesciente di una forsennata (letteralmente: fuori di senno) utopia.
Gli Stati Uniti si sono potuti fare perché nella prateria stavano 10 milioni di bufali e poche migliaia di Indiani, che hanno pagato a carissimo prezzo l'apporto multiculturale.
L'UE era e resta un'utopia che paghiamo non con la vita, ma con l'obbligo di dover mantenere tutta una proliferazione di Phtyrus brucellensis (niente a che fare con la brucellosi).