Ristorni: il blocco è l’unica arma che abbiamo (titolo originale)
(fdm) Il braccio di ferro sul blocco dei ristorni assume un notevole interesse, perché rappresenta il contrasto (eterno) tra il non fare e il fare (compiendo, magari, un’azione azzardata o discutibile). È un dilemma vecchio come il mondo. Aggiungiamo che, se uno propende per il “non fare”, una ragione – valida, semivalida, pretestuosa, immaginaria – la troverà sempre.
dal blog sergiosavoia.com
Cosa sono i ristorni, tanto per cominciare. Facciamola semplice così siamo sicuri di capirci bene. I frontalieri pagano le tasse in Svizzera. Per evitare la ‘doppia imposizione’ (ossia i poverini sono tassati sia in Svizzera sia in Italia) si è raggiunto un accordo che prevede che la Svizzera giri all’Italia una parte del totale raccolto con le tasse dei frontalieri.
Questa parte, per il Ticino, è di circa il 38%. La Svizzera la manda a Roma e Roma la restituisce ai comuni frontalieri. L’accordo è piuttosto vecchio, risalendo agli anni ’70. È anche molto favorevole all’Italia (la quota che si dà all’Austria, per esempio, è molto più bassa).
L’idea di fondo è che con quei soldi i comuni frontalieri italiani dovessero farci delle cose precise, tra cui strutture per la gestione della mobilità. Tutta roba che i comuni italiani in generale non hanno fatto, preferendo utilizzare i soldi per finanziare genericamente la propria attività.
In Italia, dove i comuni dopo l’abolizione dell’Imposta Comunali sugli Immobili (ICI) e la sorte incerta dell’Imposta Municipale Unica (IMU), si barcamenano tra l’introduzione dell’Imposta Comunale Unica (ICU) e le varie TARI, TASI i soldi sicuri e costanti dei ristorni rappresentano un vero e proprio ben di Dio.
Ora: chi, come me, sostiene il blocco dei ristorni non vuole togliere il pane di bocca ai frontalieri né ai comuni. Tenere su un conto vincolato quel 38% di tasse pagate non danneggia i frontalieri (che le hanno già pagate, le tasse) né i comuni di frontiera italiani, visto che Roma ci mette quasi tre anni a riversare ai comuni quanto la Svizzera riversa all’Italia. In sostanza, se bloccassimo i ristorni del 2014, fino al 2017 i comuni di frontiera non si accorgerebbero della differenza.
Ma un blocco dei ristorni manderebbe un segnale inequivocabile a Berna, prima ancora che a Roma: il governo ticinese fa sul serio.
Bertoli e Sadis si sono già detti contrari: guai a danneggiare le ‘trattative’ con l’Italia. Ma figuriamoci. L’Italia tiene ancora sulla black list le aziende svizzere (in modo illegale), non concede alcuna reciprocità vera ai ticinesi che volessero lavorare in Lombardia, ci tratta ancora come uno stato canaglia. Quali trattative?
Da parte italiana non c’è nessun interesse, in questo momento, a prendere decisioni. Lo abbiamo riscontrato in almeno cinque dossier su sei», dice il direttore Franco Citterio oggi al Corriere del Ticino . «L’impressione è che Berna sia troppo arrendevole e ligia alle conseguenze giuridiche, quando invece bisognerebbe considerare gli aspetti politici»
Ma va? La realtà è che Berna tratta – con calma olimpica – con Roma sopra le nostre teste. Bloccare i ristorni metterebbe il turbo a Zia Evelina e agli altri consiglieri federali. Mettiamo i milioni dei ristorni su un conto vincolato e trasferiamoli all’Italia quando le trattative si saranno concluse in maniera favorevole al Ticino. Una volta tanto.
Non solo: è tutta la fiscalità dei frontalieri che va rinegoziata, in regime di libera circolazione e con l’abolizione del limite geografico per essere definiti ‘frontalieri’.
Insomma, il blocco dei ristorni non è bello. Ma è l’unica arma che abbiamo. Ed è giunto il momento di usarla.
Sergio Savoia