Consiglio la visita di questa mostra che, grazie anche alla preziosa attenzione
nell’allestimento della stessa, racchiude una poetica unica ed una intensità espressiva che permette agli spettatori di immergersi completamente nel mondo sensibile di Flavio Paolucci.
Realizzata in occasione degli ottant’anni dell’artista, nato a Torre nel 1934, la mostra, che si compone in gran parte di opere scultoree, si estende sui tre piani del museo e presenta un interessantissimo percorso che illustra gli sviluppi del lavoro di Paolucci dal 1989 ad oggi, definendosi come una prosecuzione ideale della mostra precedente.
L’esposizione, curata da Elio Schenini, offre uno sguardo panoramico su questo periodo produttivo dell’artista, estremamente vitale e ricco di sviluppi formali ed estetici che vengono ad incrementare, con nuove invenzioni e intuizioni spesso folgoranti, un corpus sì amplissimo ma sempre estremamente coerente.
Riprendendo le stesse parole di Schenini, la mostra si intitola “Dai sentieri nascosti” e, senza avere ambizioni antologiche, rimanda a un inestricabile rapporto “arte-natura” vissuto nell’intimità della propria dimensione esistenziale e che, dalla metà degli anni Settanta, costituisce la vera essenza dell’opera di Paolucci.
Nel 1974 l’artista realizza, infatti, i suoi primi “innesti”, lavori che segnano la reale svolta nel suo percorso d’artista: queste sono opere che, non solo appaiono precocemente sintonizzate con alcune delle esperienze più significative emerse in quel giro d’anni nel contesto dell’Arte Povera italiana, ma segnano anche il superamento di una serie di esperienze di ricerca dei suoi esordi e il definitivo approdo a quella singolarità di linguaggio chiaro e definito che da quarant’anni contraddistingue la sua ricerca e che si potrebbe dire legata ad un certo particolare sviluppo che rimanda a sensazioni di assimilazione concettuale orientale.
A partire dai primi caratteri immaginari che compaiono negli “Alfabeti selvatici”(1975), Paolucci è andato precisando e definendo nei decenni successivi gli elementi del proprio alfabeto visivo, arricchendolo via via di nuovi segni.
Questi elementi rappresentano la dualità espressiva del linguaggio di Paolucci, perché ritroviamo segni che possono essere o pienamente iconici come la barca, la colonna, la casa, la bandiera, il remo, la foglia, il ramo, l’uovo, la perla, o altri astratto-geometrici come il cerchio, il quadrato, il rettangolo, la retta e la croce. Attraverso questi segni, intesi come caratteri primari che definiscono una simbologia al contempo ancestrale ed esistenziale, l’artista trascrive in visioni e racconti le suggestioni che gli propone la propria esperienza quotidiana del mondo.
Un’esperienza che, come afferma l’artista, non passa tanto attraverso l’«intelligenza del pensiero» quanto piuttosto tramite l’«intelligenza degli occhi».
In Paolucci però non dobbiamo dimenticare che l’occhio si muove sempre assieme alla mano.
La sintassi del suo alfabeto visivo, infatti, prende forma secondo il principio del collage, dell’assemblaggio di elementi, che si definisce in una tradizione artigianale, e al contempo si ricollega a una concezione della modernità che accoglie e anzi celebra il ruolo degli incidenti provocati dalla casualità all’interno del processo creativo.
Anche i materiali su cui l’artista esercita la propria manualità durante il processo creativo sono sempre i medesimi da quarant’anni a questa parte, ovvero legno, carta e colore.
Tuttavia, come appare chiaro visitando la mostra, avvertiamo una metamorfosi nell’ultimo decennio: infatti l’artista spesso trasmuta questi elementi a lui tanto cari in nuovi materiali realizzando dunque le sue sculture in bronzo, accoppiandovi altri materiali come il vetro e il marmo.
L’effimero tende così a diventare perenne, mantenendo comunque la sua poetica.
Sono dunque le diverse patine con le quali sono rifiniti gli attuali bronzi a riprendere il ruolo dei collages costituiti da quelle carte colorate al nerofumo che negli anni Ottanta e Novanta rivestivano come una nuova pelle i legni scortecciati dell’artista… e sono sempre queste patine che ripropongono, seppur in forma diversa ma rigorosamente coerente al pensiero dell’artista, quell’ambiguità tra naturale e artificiale che da sempre caratterizza le opere di Paolucci.
Edizione bilingue italiano-inglese, 196 pagine con illustrazioni a colori.
La mostra e la pubblicazione sono state realizzate con il contributo di:
• Sophie und Karl Binding Stiftung
• Fondazione ing. Pasquale Lucchini
• Banca dello Stato del Cantone Ticino
Museo Cantonale d’Arte, Lugano
8 febbraio – 27 aprile 2014
Mostra a cura di Elio Schenini
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