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La sindrome irachena tormenta ancora l’America di Obama

Stando ai sondaggi, il 60% degli americani si dice contrario a un intervento militare in Siria, anche limitato nel tempo.

L’America profonda è logorata da dieci anni di guerra e troppo abituata a vedere tornare i suoi ragazzi in una cassa da morto o su una sedia a rotelle. Sabato questa America è scesa nelle strade di Washington, New York e Boston per esprimere la sua ostilità a un intervento armato in Siria, a un ingranaggio che farebbe risorgere lo spettro della sindrome irachena.

Alcune similitudini aggiungono elementi alla confusione generale, come le armi di distruzione di massa delle quali il governo americano non riesce a portare prove definitive.
C’è però una differenza maggiore : nel 2003 l’America di Bush, trionfante, conquistava l’Iraq di Saddam Hussein, dopo una guerra lampo che aveva fatto dire al presidente “Missione compiuta!”.
Dieci anni dopo il compimento della missione, l’America è ancora in guerra e l’Iraq è un vespaio sanguinante, come l’Afghanistan.

La prospettiva di immischiarsi negli ingranaggi siriani non entusiasma. Oggi il 60% degli americani è contrario a un intervento armato in Siria, vive ancora il trauma legato alle menzogne dell’amministrazione Bush e alle perdite subìte in Iraq.
Venerdì scorso di fronte al Senato, il Segretario di Stato John Kerry ha dichiarato : “Sappiamo che dopo un decennio di guerra gli americani sono stanchi. Credetemi, lo sono anche io, ma la fatica non ci esonera dalle nostre responsabilità.”

L’America di Obama è tornata a essere la “superpotenza reticente” che negli anni 1990 si era brutalmente ritirata dalla Somalia e aveva permesso il sopraggiungere del genocidio ruandese?
“Tutta la portata del disastro iracheno appare oggi nella sua chiarezza – sottolinea William Galston, del Brookings Institution – quando vediamo a che punto il popolo americano si mostra stanco e preoccupato di fronte a interventi armati senza una fine prevedibile. La questione è sapere se i pessimi motivi che hanno spinto a agire in Iraq oggi possono impedire di agire in Siria.”

La crisi economica del 2008 e l’arrivo di un presidente con una visione di politica estera minimalista sembravano dover portare un cambiamento rispetto all’era Bush.
Confrontato a due crisi maggiori e impreviste, la Libia nel 2011 e il Mali nel 2013, Obama aveva lasciato francesi e inglesi intervenire soli, o quasi.
Il presidente era guidato dall’opinione pubblica, alla quale aveva promesso di concludere il ritiro delle truppe dall’Afghanistan e mettere fine a costose spedizioni militari, per meglio concentrarsi sulla preoccupante situazione dell’economia.

Schiacciati dal pessimo stato dell’economia e dalla mancanza di lavoro, oggi gli americani guardano il dossier siriano con sospetto, divisi fra un riflesso morale e il desiderio di star fuori dai pasticci del mondo per far rimarginare ferite ancora aperte.
La confusione fra sentimenti moralisti e isolazionisti è grande. Se il presidente Obama ordinerà gli attacchi aerei sulla Siria e questi produrranno effetti palpabili, senza causare la mobilitazione dei soldati appena tornati dall’Afghanistan, “potrebbe essere visto come un eroe – fa notare William Galston – Se invece fallisce e la Siria diventa un carnaio, gli americani non glielo perdoneranno mai.”

(Le Figaro.fr)

Redazione

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