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Banana Republic – di Carlo Curti

Pubblichiamo con piacere questo interessante articolo del nostro affezionato ospite Carlo Curti. Disturba un poco nel suo scritto l’assenza di ogni minima parola di condanna verso una feroce banda armata che si macchiò di centinaia di assassinii. Sarebbe forse il caso di far notare a Curti che costoro non furono una specie di san Vincenzo de’ Paoli o di Esercito della Salvezza… Ma, per questa volta, non lo faremo. [fdm]


Niente a che vedere con l’album dal vivo di Lucio Dalla e Francesco De Gregori uscito nel 1979, se non per il rimando all’emergenza nazionale di quel periodo, i cosiddetti anni di piombo. Dopo il Corriere della Sera, il Corriere del Mezzogiorno, Rai tre (Chi l’ha visto), il Tribunale di Perugia, Adriano Sofri, Nicola Rao, tanto per citare i più “visibili”, arriva Giuliano Amato, politico di lungo corso, uomo di stato e di cultura, professore di diritto costituzionale.

Giuliano Amato è stato consigliere economico e politico di Bettino Craxi fino al 1989, poi ministro con Massimo D’Alema nel 1998, capo del governo nel 2000 e ministro dell’interno nel 2006 con Prodi. Insomma una personalità di rilievo internazionale. Per questo motivo le parole di Amato sulle torture sono qualcosa di più della semplice testimonianza di quello che una figura di potere di così alto spessore ha potuto sapere, sentire, leggere o conoscere nei posti chiave che ha occupato. Se un uomo così parla, dopo alcuni decenni dai fatti, è perché vuole sancire qualcosa. E al di là del consueto linguaggio felpato, delle cautele espressive, il ”dottor Sottile” dice delle cose molto chiare. Vediamole:

“Accanto alle inchieste coraggiose e ai sacrifici vi fu infatti il ricorso a forme di pressione fisica e psicologica su alcune migliaia di arrestati e detenuti, che nel caso dei primi sembra siano talvolta arrivate, malgrado le smentite, a toccare la tortura. A parlarne sono stati gli stessi funzionari che ne furono i protagonisti. Essi hanno per esempio accennato all’uso del water boarding (allora chiamato «algerina» perché usato dai francesi in Algeria) da parte di un gruppo speciale che – probabilmente ispirandosi a uno «spaghetti western» di successo – si era ribattezzato «I cinque dell’Ave Maria». Le applicazioni controllate furono in tutto poche decine, e di esse si discusse alla Camera per tre volte dal marzo al luglio 1982, quando Rognoni negò ripetutamente la cosa, ma ve ne furono anche di selvagge, come ammise Scalfaro all’epoca ministro dell’Interno”.

Riassumendo:
a) si è ricorso a strumenti d’eccezione ed extralegali;
b) si è fatto uso della tortura, nonostante le smentite;
c) seppure in numero limitato alcuni magistrati erano al corrente dell’impiego della tortura. In un Paese dove vige l’azione penale obbligatoria sapere e non intervenire significa una cosa sola: coprire. Quindi un pezzo di magistratura, non importa la quantità ma la qualità, in altre parole le procure che gestivano le inchieste più importanti sulla lotta armata, hanno coperto e difeso l’impiego strategico della tortura (vero signor Caselli?).

Soprattutto trovano una sonora smentita le frasi del presidente della Repubblica Sandro Pertini, che fu compagno di partito di Amato, il quale aveva detto che in Italia il terrorismo era stato sconfitto nelle aule di giustizia e non negli stadi; e ancora di più le incaute dichiarazioni del generale Dalla Chiesa che rispondendo a un giornale argentino affermò: “L’Italia è un Paese democratico che poteva permettersi il lusso di perdere Moro non di introdurre la tortura”.

Adesso, dopo Moro, hanno perso anche la faccia; e non è poco!

Carlo Curti, Lugano

Relatore

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