Le finanze pubbliche italiane non vanno bene, ed il loro recente declassamento pone un’importante domanda: è possibile assicurare ai Paesi dell’Eurozona finanziamenti a costi minori senza l’intervento della BCE, coinvolgendo esclusivamente il singolo Stato e rimanendo all’interno dell’Eurozona? Con l’emissione dei cosiddetti Tax‐backed Bond (obbligazioni fiscalmente vincolanti) di principio sì.
L’Eurozona è stretta da tensioni quali disoccupazione, recessione e preoccupazione sulla solvibilità degli Stati. La congiuntura non riparte e l’austerità persiste. Le proposte avanzate per ridurre il debito sovrano prevedono l’aumento delle tasse o la diminuzione della spesa pubblica, in contrasto con l’obiettivo di stimolo della crescita. La politica monetaria della BCE è ultra espansiva, il tasso di interesse di riferimento prossimo allo zero. Nonostante questo, la contrazione del credito alle imprese persiste e gli investimenti delle aziende non decollano.
La priorità della politica fiscale resta quella di abbassare il rapporto debito/PIL (trattato di Maastricht), ma siccome il PIL non si riprende, non resta che ridurre il debito sovrano. Per di più, per alcuni Paesi la spesa per interessi è un costo annuo importante (nel 2012 l’Italia ha pagato in interessi l’equivalente del 5,5% del PIL). Ridurla sarebbe un gran passo avanti. Nel settembre 2012, Mario Draghi diede il via allo scudo anti spread, ovvero l’acquisto di titoli di Stato sul mercato secondario (dato che la BCE non opera su quello primario). I rendimenti si ridussero subito. Ciononostante, i declassamenti continuano tutt’oggi, proprio perché la solvibilità dei Paesi peggiora sempre più. Non vedendo prospettive di miglioramento, la domanda di bond da parte degli investitori cala, rendendo più difficile l’intervento della BCE.
Quali le opzioni per ottenere fondi a basso costo? La BCE potrebbe trasferire riserve agli Stati membri in proporzione al PIL generato, il che creerebbe tuttavia controversie sull’indipendenza stessa dell’istituto centrale. Una seconda possibilità potrebbe essere l’uscita dello Stato in difficoltà dall’Eurozona, per permettergli di gestire in modo autonomo e senza limiti quantitativi la politica monetaria, acquistando i titoli di Stato con le operazioni di mercato aperto tenendo bassi i rendimenti e stimolando gli investitori verso titoli più rischiosi come le azioni o le obbligazioni aziendali (è il caso giapponese). Una terza idea sarebbe emettere obbligazioni “europee” la cui solvibilità sarebbe garantita congiuntamente dagli stessi Paesi dell’Eurozona, e dove l’allocazione dei fondi raccolti verrebbe destinata ai Paesi richiedenti secondo criteri da determinare. Finora, le nazioni più facoltose restano contrarie: esse sopporterebbero un onere maggiore in termini di costo del debito e in caso di fallimento di uno dei Paesi membri sarebbero le prime a garantire il rimborso dei titoli.
All’interno di questi scenari esiste pertanto spazio per un prodotto innovativo: i Tax‐backed Bond, simili ai normali titoli di debito pubblico con l’eccezione di una clausola secondo la quale, se lo Stato divenisse insolvente, esso accetterebbe tali titoli come strumento di pagamento delle imposte, come proposto dagli economisti Warren Mosler e Philip Pilkington. Lo Stato libererebbe così gli investitori dal rischio di fallimento sovrano. Se un detentore del titolo non fosse un contribuente dello Stato, in caso d’inadempienza dello Stato emittente egli potrebbe vendere il titolo ad un residente e quest’ultimo potrà pagare le imposte con il titolo ricevuto. Con l’introduzione dei Tax‐backed Bond i rendimenti nelle aste in prima emissione sarebbero più bassi, proprio perché il rischio d’insolvenza si annullerebbe e perché l’obbligazione sovrana sarebbe comunque sempre monetizzabile in imposte.
Attenzione però: è vero che con questo nuovo prodotto il creditore sarebbe tutelato, ma è pur sempre necessaria un’autorità istituzionale superiore che assicuri il pieno rispetto dell’obbligo di compensazione fiscale da parte dello Stato fallito. Inoltre, il fatto stesso di ipotizzare un possibile fallimento dello Stato all’interno delle specifiche dell’obbligazione potrebbe fungere da deterrente per investitori avversi al rischio, vanificando così l’attrattività del prodotto.
Luca Stinca, economista