5 marzo 1953 – Muore nella sua dacia il dittatore Giuseppe Stalin

Pertini

Con queste parole lo ricordò Sandro Pertini, sconvolto dall’emozione, alla Camera.

” Il compagno Stalin ha terminato bene la sua giornata, anche se troppo presto per noi e per le sorti del mondo. L’ultima sua parola è stata di pace. […] Si resta stupiti per la grandezza di questa figura che la morte pone nella sua giusta luce. Uomini di ogni credo, amici e avversari, debbono oggi riconoscere l’immensa statura di Giuseppe Stalin. Egli è un gigante della storia e la sua memoria non conoscerà tramonto.”


Ed ecco il potentissimo Lavrentij Beria, con altri sommi gerarchi sovietici, al capezzale del Grande Capo morente.

Beria

Beria con Svetlana, la figlioletta di Stalin, che lavora e fuma la pipa

Beria era anche noto come lo zar della bomba atomica perché incaricato dal 1945 del programma nucleare per conto del governo dei Soviet. E soprattutto era il capo della polizia, allora l’intoccabile NKGB, il Commissariato del popolo per la Sicurezza dello Stato, e Maresciallo dell’Urss. Era nota la sua predilezione per le giovani donne, anzi le ragazzine che attirava nella sua casa-prigione che ospitava nelle cantine le celle per detenuti. Egli, appena si rese conto che Stalin giaceva immobile sul pavimento, prese a danzargli sfrenatamente attorno urlando: «Il gatto è morto, siamo liberi». In quel preciso istante, accadde l’imprevedibile: Stalin alzò un braccio e con un occhio ammiccò. Presi dall’inquietudine e dal terrore, gli astanti si fecero silenziosi e guardinghi, improvvisamente raggelati. Nel silenzio, si vide Beria inginocchiarsi e abbracciare il corpo esanime del tiranno afferrandogli dolcemente le ginocchia e chiedere scusa con teneri accenti: «Piccolo padre, scusa ho sbagliato, sono colpevole». Poi il corpo del Segretario generale s’acquietò per sempre. (Il Giornale, 2006)