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Hamza Kashgari. Il giornalista apostata in attesa della sentenza di morte

Il giornalista saudita Hamza Kashgari potrebbe pagare molto caro i commenti scritti il 4 febbraio su Twitter sul profeta Maometto. Giudicate blasfeme, le sue parole hanno scatenato l’ira di migliaia di musulmani.

Kashgari, 23 anni, si trova ora in prigione e rischia concretamente la pena capitale per insulti al profeta e per aver rinnegato pubblicamente la sua religione.
Il 4 febbraio, anniversario della nascita di Maometto, il giovane uomo aveva pubblicato su Twitter diversi messaggi indirizzati al profeta dell’Islam: “Nel giorno del tuo compleanno non mi inchinerò davanti a te – aveva scritto – Alcune cose di te mi sono piaciute e altre mi hanno inorridito, non ho capito molto sul tuo conto. Ho amato il tuo essere ribelle ma non amo l’aurea di divinità che ti circonda. Non pregherò per te. Ti stringerò la mano come un tuo pari. Ti parlerò come a un amico, nulla di più.”

Il Web islamico era esploso, incredulo, scandalizzato, arrabbiato e assetato del sangue dell’incosciente giornalista, che spaventato era fuggito in Malesia. Per essere catturato dopo pochi giorni e essere riportato, in catene, in Arabia Saudita, dove ora si trova in una cella ad attendere il verdetto del tribunale islamico.
La data del suo processo non è ancora stata fissata. Difficilmente i giudici saranno clementi. Il crimine di cui viene accusato è il peggiore che vi sia: apostasia, ossia l’abbandono formale della propria religione.
Nessuna pietà per chi se ne macchia e inutili le scuse che Kashgari aveva postato su Twitter prima di essere arrestato.
Per salvarlo dalla pena di morte si stanno muovendo Amnesty International e Human Rights Watch. Anche l’Unione europea ha fatto sentire la sua voce ma per l’Arabia saudita questo è un caso interno e internamente andrà risolto.

Redazione

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    • se vuoi vedere chi sono i veri nazzisti leggi qua... il tipo rischia 50 anni di carcere perché aveva un server che permetteva la condivisione di files...

      Kim Dotcom: la notte dell’arresto

      Wayne Tempero, capo della sicurezza di casa Dotcom, spiega i momenti dell'arresto: l'FBI pensava che le tate filippine nascondessero bombe

      L’arresto di Kim Dotcom e la conseguente chiusura di Megaupload sono ormai fatti ben noti, così come le ragioni che hanno portato all’intervento da parte dell’FBI. Fino a oggi, tuttavia, non erano emerse indiscrezioni sulle modalità d’arresto: una questione a cui ha provveduto l’emittente neozelandese 3News che, nell’intento di intervistare l’addetto alla sicurezza della magione di Dotcom, ha avuto accesso a tutte le stanze

      Si apprende, così, come le operazioni di arresto di Kim Dotcom abbiano seguito un canovaccio da film poliziesco, una spy story che lascia sgomenti per quanto efferata. L’FBI, infatti, pare si sia comportata come se si trovasse di fronte a un criminale di ben altra fattura, con un’irruzione violenta forse sovrastimata rispetto ai reati di cui l’entourage di Megaupload si è reso colpevole.

      Il tutto ha avuto inizio all’alba del 20 gennaio, poco dopo le 6 del mattino, quando il capo della sicurezza Wayne Tempero è stato svegliato dal rumore degli elicotteri e degli agenti in tenuta antisommossa. Nemmeno il tempo di vestirsi e la residenza è stata invasa da un piccolo esercito di poliziotti, armati con pistole automatiche M4A3, cani antidroga, mazze, motoseghe circolari, lacrimogeni e molto altro ancora.

      Effettuata l’irruzione, gli agenti hanno iniziato a cercare Dotcom per tutta casa, sfondando anche l’entrata della zona bambini, dove riposavano tre infanti – di 3 anni, 4 anni e 15 mesi – accompagnati da alcune tate filippine. L’FBI avrebbe addirittura chiesto minacciosamente alle donne se fossero in possesso di armi da fuoco o di bombe, un fatto del tutto singolare che, con il senno di poi, Tempero commenta ironicamente con un «Non so, forse è quello che solitamente le tate fanno nelle Filippine…».

      A questo punto, il gruppo di poliziotti decide di salire al secondo piano dell’abitazione, dove era dislocato l’headquarter lavorativo di Dotcom. Determinati a sfondare ogni porta, Tempero si è offerto di fornire i codici di sicurezza e le chiavi per lo sblocco delle entrate, ma l’FBI l’ha intimato di ritirarsi al pian terreno e di non intervenire nelle operazioni. Pensando che Dotcom si fosse nascosto su un montacarichi per la biancheria – un’ipotesi decisamente remota visto la corporatura non certamente esile del capo di Megaupload – l’FBI ha cercato di sfondare invano il pannello d’accesso al montacarichi stesso. Dotcom, in realtà, si era rifugiato in una stanza immediatamente adiacente, un finto armadio a muro con fondo apribile che dà accesso a un attico segreto. Trovato l’ingresso, l’FBI ha quindi arrestato l’uomo, che non ha opposto alcuna resistenza. Non vi sarebbe nemmeno stato il tentativo di nascondere o eliminare documenti importanti, file compromettenti o quant’altro: qualora avesse voluto, così come sottolinea il capo della sicurezza, Dotcom avrebbe potuto provvedere in pochissimi secondi.

      • oramai le reazzioni dei governi e dei tribunali con quello che scrivi in internet sono allucinanti...
        guarda quello che é successo al povero assange di wikileaks... 8-O 8-O 8-O

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