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Di fronte al rifiuto del governo israeliano di porgere scuse ufficiali alla Turchia per il suo raid nel maggio 2010 contro la nave turca Mavi Marmara, Ankara ha moltiplicato le sanzioni : espulsione dell’ambasciatore israeliano, fermo dei passeggeri israeliani in arrivo nel paese, sospensione degli accordi bilaterali militari, procedimento presso la Corte internazionale di giustizia per contestare la chiusura della Striscia di Gaza.

In un’intervista sul quotidiano francese Le Monde, Dorothée Schmid, specialista della Turchia moderna presso l’Istituto francese delle relazioni internazionali spiega i motivi per i quali la Turchia non teme di inasprire la sua posizione di fronte ad Israele.
La crisi si iscrive in un contesto di distanziamento diplomatico progressivo – spiega – iniziato alla fine del 2008 a seguito dell’offensiva Piombo Fuso, condotta dall’esercito israeliano nella Striscia di Gaza.
A inizio 2009 la questione di Gaza era stata portata al Forum di Davos, dove il premier turco Erdogan aveva lasciato il tavolo delle trattative dopo una lite furibonda con il presidente israeliano Shimon Peres. Nell’estate di quell’anno il nuovo governo di Benjamin Netanyahou aveva tolto alla Turchia il ruolo di mediatrice fra Israele e la Siria.
Da lì in poi le manifestazioni della perdita di fiducia si erano moltiplicate. L’incidente della Mavi Marmara nel maggio 2010 aveva segnato il definitivo punto di non ritorno.
La nave si dirigeva verso la Striscia di Gaza, sorda alle numerose richieste israeliane di invertire la rotta. Nel conseguente attacco erano rimasti uccisi diversi marinai turchi.

Vi è poi la questione del riconoscimento presso le Nazioni Unite di uno Stato palestinese sui confini del 1967. La maggior parte dei turchi è filo-palestinese e il governo di Ankara deve tener conto di questo sentimento. Quando nel 2008, Ankara aveva criticato l’attacco israeliano della Striscia di Gaza, il premier Erdogan era diventato un eroe, sia in patria sia nell’insieme dei paesi arabi. Oggi ancora ha la statura internazionale ideale per influenzare l’opinione mondiale sul potenziale economico e strategico della Turchia.
Dal conflitto con Ankara, per contro, il governo di Tel Aviv ha molto da perdere, in quanto la Turchia era uno dei suoi maggiori alleati nella regione, dove il contesto si sta facendo sempre più inquietante. Perdere questo appoggio significa perdere in termini di sicurezza.

La Siria è in preda al caos, in Egitto la partenza di Moubarak ha ridato fiato a chi si oppone ad un accordo di pace tra israeliani e palestinesi. L’Iran continua a lanciare minacce e porta avanti il suo programma nucleare, in barba alle sanzioni internazionali. La prospettiva di vedere lo Stato palestinese riconosciuto alle Nazioni Unite sarebbe per Israele un ulteriore elemento di forte disagio. Senza dimenticare le manifestazioni popolari che da settimane si svolgono nelle maggiori città del paese e che portano nelle piazze migliaia di persone che protestano per il rincaro della vita.
La Turchia si rafforza, Israele si indebolisce. Entrambi sono alleati degli Stati Uniti, il cui governo tenta di calmare le acque in quanto ha bisogno di entrambi. Le simpatie maggiori vanno però alla Turchia, preziosa per il mantenimento degli equilibri regionali e il presidente Obama non fa mistero di sentirsi lontano dall’allineamento pro-sionista dell’amministrazione Bush.