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Libia. Quale coerenza nell’intervento della Nato?

Martedì il ministro degli esteri britannico William Hague e il suo omonimo francese Alain Juppé hanno accettato l’eventualità proposta dagli insorti che Gheddafi e i suoi familiari possano rimanere in Libia a condizione che il colonnello rassegni le dimissioni.

La Gran Bretagna ha utilizzato la sua potenza aerea per aiutare l’opposizione libica, con la profonda convinzione che ciò avrebbe modificato gli equilibri militari e consentito ai ribelli di vincere la guerra. Ma così non è stato. Al contrario, si è creato uno stallo che potrebbe protrarsi per tutta l’estate.
Dichiarare adesso che Gheddafi può restare in Libia a patto di abbandonare il comando del paese è fiato sprecato. Il leader libico non lascerà mai il potere fino a quando crederà di avere la forza militare necessaria per continuare a dominare su almeno una parte del paese.

A lungo termine Gheddafi verrà spodestato dalle pressioni economiche e dalla perdita degli introiti derivanti dalla vendita del petrolio. Nel breve periodo, però, la politica migliore dell’Occidente non può consistere nello strombazzare ciò che il colonnello può o non può fare, ma nel persuadere l’opposizione a dichiarare un cessate il fuoco e dare così inizio ai negoziati tra le due parti sotto l’egida delle Nazioni Unite o dell’Unione africana.
Il vero problema dei politici occidentali – e dei politici in generale – è quello del “possesso”. Se si presenta un evento ipoteticamente vantaggioso come la Primavera araba, tutti vogliono rivendicarne una parte. Se un evento prende una brutta piega, come in Yemen o in Bahrain, ne prendono le distanze quanto prima.
L’intervento dell’Occidente pertanto non può avere successo se non si va sino in fondo, ovvero se si invade un paese per poi però ritrovarsi impantanati in tutta una marea di problemi che abbiamo già visto in Iraq e in Afghanistan. A questo proposito, la politica migliore che può adottare l’Occidente è quella osservare gli eventi con attenzione e discrezione.
Ciò non significa che dovremmo starcene tranquillamente con le mani in mano, ma anzi che le armi migliori a nostra disposizione, i nostri strumenti di persuasione più efficaci, sono quelli economici.

Riconoscere il Consiglio nazionale di transizione come il vero governo della Libia non servirà a molto. In sintesi, dovranno essere i libici a scegliersi e plasmare il proprio futuro politico. Da parte nostra, possiamo offrire loro un futuro nel quale gli aiuti economici, l’apertura dei mercati, la libertà di movimento offriranno una vita migliore di quella che hanno vissuto negli anni del regime autocratico di Gheddafi e della sua corruzione.
Le frontiere aperte e l’immigrazione, naturalmente, sono l’ultima cosa che la classe politica europea è disposta ad accettare. Così come, in questi tempi di austerity, è poco propensa a concedere un aiuto sostanzioso per ciò che concerne l’accesso ai mercati o il diretto aiuto economico.
Facciamo però un piccolo passo indietro e riflettiamo: la Primavera araba potrebbe essere quanto di meglio sia capitato all’Europa negli ultimi decenni. Difatti, ha spalancato scenari inediti per una nuova politica nell’intero bacino del Mediterraneo, ma anche per una rinascita economica che gioverebbe sia all’Europa meridionale che al Nordafrica.

(Fonte: the independent.co.uk/presseurop.eu)

Redazione

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