Nell’aprile 1961 iniziava in Israele il processo al gerarcha nazista Adolf Eichmann, conclusosi nel 1962 con la sua impiccagione. In occasione del cinquantesimo anniversario il magazine tedesco Der Spiegel rievoca sulla base di documenti inediti, la fuga, l’arresto e il processo ad Eichmann, responsabile dei convogli ferroviari che trasportavano gli ebrei nei campi di concentramento nazisti.
L’ex ufficiale riuscì a sfuggire al processo di Norimberga e nel 1950 si trasferì in Argentina adottando una nuova identità. Nell’immagine a lato il documento che gli venne rilasciato dalla Croce Rossa a nome di Ricardo Clement.
Per anni Eichmann visse a Buenos Aires protetto dalla nuova identità. In questa città aprì una lavanderia, allevò conigli e lavorò come operaio in una fabbrica della Mercedes Benz. Tenne contatti con Josef Mengele, il medico del lager di Auschwitz-Birkenau, partecipò alle cerimonie organizzate da immigrati nazisti in onore del presidente argentino Juan Peron e si lasciò andare a rimembranze nostalgiche affermando che durante la guerra “saremmo potuti andare oltre. Non abbiamo fatto il nostro lavoro come avremmo dovuto. Potevamo fare meglio.”
La sua vera identità venne alla luce nel 1957, quando suo figlio fece rivelazioni compromettenti alla fidanzata, alla quale si era incautamente presentato con il suo vero cognome. La ragazza riportò i racconti del giovane al padre, il quale collegò il cognome Eichmann al criminale nazista ricercato in tutto il mondo. Ne parlò al procuratore tedesco Fritz Bauer, il quale informò il Mossad israeliano. Nel 1960 i servizi segreti israeliani rapirono Eichmann e lo portarono in Israele, dove venne processato e impiccato il 31 maggio 1962.
Durante il processo Eichmann negò di odiare gli ebrei e riconobbe soltanto “la responsabilità di aver eseguito ordini come qualunque soldato avrebbe dovuto fare durante una guerra”.
Per questa sua dichiarazione, Hannah Arendt, la storica tedesca di origini ebraiche scomparsa nel 1975, descrisse l’ex SS-Obersturmbannfuhrer Adolf Eichmann come “l’incarnazione dell’assoluta banalità del male”.
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