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Quale avvenire per l’Egitto nelle mani dei militari?


Venerdi’ 11 febbraio, in fine mattinata il presidente egiziano Hosni Mubarak ha lasciato Il Cairo alla volta della sua residenza di Sharm el Sheikh. Nel tardo pomeriggio il vice presidente Omar Suleiman è apparso alla televisione ed ha annunciato che Mubarak aveva rassegnato le dimissioni e che il potere passava nelle mani dell’esercito.

Il potere nelle mani dell’esercito. La democrazia e le armi, un binomio che non ha mai funzionato. Porterà giustizia e pace in Egitto? Questa è ora la questione cruciale.
L’esercito egiziano si trova indubbiamente di fronte ad un compito immane: restaurare la stabilità nel paese e rispondere alle aspirazioni democratiche di un popolo soggiogato durante i trent’anni del regno di Mubarak.
Seppure ha assicurato che condurrà il paese verso elezioni libere e che toglierà lo stato d’urgenza in vigore nel paese dal 1981, il Consiglio supremo delle forze armate non ha fornito maggiori dettagli riguardo ai suoi progetti. L’Egitto avanza dunque speranzoso ma lungo un cammino cosparso di incognite.

I vertici militari sono da ieri incaricati di gestire gli affari del paese. Il comando è stato messo nelle mani del ministro della difesa, il maresciallo Mohamed Hussein Tantawi.
L’esercito egiziano conta 470mila uomini e gode della simpatia del popolo, contrariamente alla polizia, che è considerata legata al regime.
Durante i 18 giorni delle manifestazioni, contrariamente a quanto avrebbe sicuramente voluto Mubarak, i militari non sono intervenuti per reprimere i disordini, statuendo di fatto la loro simpatia verso la popolazione, che vede i soldati come i mediatori fra il potere e le rivolte di piazza.

Quel che ancora non si riesce a capire è come l’esercito gestirà il paese. Sino ad oggi è stato avaro di dichiarazioni, rilasciando solo tre brevi comunicati. Se i soldati godono della simpatia della popolazione lo stesso non si puo’ dire per Tantawi e Suleiman. Il maresciallo Tantawi, 75 anni, è considerato il fantoccio di Mubarak, mentre Omar Suleiman, 74 anni, ex capo dei servizi segreti e amico della CIA, è contestato dai manifestanti per il suo stretto legame con il regime di Mubarak.
Dal 1952, da quando un colpo di Stato mise fine alla monarchia, tutti i presidenti egiziani sono usciti dalle file dell’esercito. Quel che è certo è che l’esercito è la colonna portante dell’Egitto. In pratica è un’enorme società che produce beni di consumo, dirige gli affari economici e detiene il 15% della ricchezza del paese.

Le forze armate potrebbero mandare un segnale positivo destituendo l’intero nuovo governo messo in piedi in fretta e furia da Mubarak dopo l’inizio delle proteste, il 25 gennaio scorso. In attesa delle elezioni del prossimo settembre potrebbe formare un governo di transizione rappresentativo del popolo, dei partiti dell’opposizione e delle formazioni che hanno scatenato la rivolta.

Venerdi’ il presidente statunitense Barack Obama aveva auspicato la rimozione dello stato d’emergenza, la revisione della Costituzione e altre leggi atte a garantire il carattere irreversibile del cambiamento, così come la definizione di una traiettoria chiara verso elezioni libere e giuste. Catherine Ashton, capo della diplomazia europea ha anche auspicato la creazione di un governo largamente rappresentativo.

Qualunque sia il futuro governo egiziano, esso sarà confrontato ad importanti sfide sociali ed economiche. Nei 18 giorni della rivolta l’economia egiziana ha subìto un duro colpo, soprattutto a causa della partenza in massa dei turisti, la chiusura della Borsa e la reticenza degli investitori stranieri.
Da non dimenticare infine un altro aspetto importante che i vertici dell’esercito dovranno affrontare: la loro posizione di fronte alla formazione più importante dell’opposizione, i Fratelli musulmani, acerrimi nemici del regime e altra incognita – insieme ai militari – del dopo-Mubarak.

(Fonte: Le Monde.fr)

Redazione

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  • I Fratelli musulmani non sono poi così un'incognita. Se, da un lato, sono forti solo perché hanno saputo mantenere una potente organizzazione di aiuti sociali (in Egitto la socialità non è statale, bensì quasi esclusivamente privata), essi sono anche assai divisi e già si prevede che esso si dividerà in almeno due partiti: uno più islamista e uno più sulla linea del partito di Erdogan in Turchia o i partiti democristiani in Europa. Quest'ultimo goderebbe di una base elettorale assai più ampia, anche perché allargata ai cristiani.
    In ogni caso è rilevante che la guida spirituale dei FM, Qaradawi costretto all'esilio dal regime Mubarak, ha chiaramente espresso che la libertà di espressione deve avere il sopravvento sulla creazione di una società prettamente islamica basata sulla sharia. Soprattutto in Egitto, dove la minoranza cristiana deve poter godere di maggiore rispetto, sulla base di un patto sottoscritto quasi 1400 anni fa, che obbligava l'Islam a proteggere i copti da chi tentava di annientarli. Fino alla conquista islamica, i bizantini controllavano l'Egitto e massacravano gli "eretici" cristiani, cioé i copti che erano considerati monofisiti.

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